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LA CONTENZIONE FISICA IN PSICHIATRIA: reclusione o nursing?

Giornata di studio sulla contenzione fisica e farmacologica per il Collegio IPASVI di Pistoia

 19 Aprile 2004

 

Relazione di CPSE/Afd-SaP Valter Fascio

 

 

 

 

Coordinatore Infermieristico DSM 5/A - ASL 5 Piemonte - Animatore di formazione aziendale; Certificato di Specializzazione in assistenza nella salute mentale.

Professore a contratto di nursing di psichiatria Università degli Studi di Torino e Università Amedeo Avogadro di Novara.

Co-responsabile dell’Area Psichiatria Associazione InfermieriOnline (www.infermierionline.net); Membro del Forum Nazionale della Salute Mentale e dell’Associazione Italiana per la Qualità e l’Accreditamento nella Salute Mentale (QUASM).

 

 

 

Premessa

 

Ringrazio il Collegio Ipasvi di Pistoia, la Presidente Giovanna Giuffreda e il Consigliere ed amico Rudy Lombardi, per l’invito a partecipare come relatore a questo corso di formazione che ho accolto molto volentieri sia per ritrovarmi con i colleghi sia per gli interessanti argomenti che sono presentati e discussi.

 

Lavoro da oltre quindici anni in questo specifico ambito; attualmente, sono un coordinatore infermieristico di un DSM Piemontese, docente di nursing di psichiatria al CdL Infermiere nei due Atenei della nostra Regione.

A me è stata chiesta una specifica relazione sulla Contenzione fisica in psichiatria. Gli stimoli che ci sono pervenuti dalle relazioni sono numerosi e notevoli. Chiedo scusa se, dovendo esporre per ultimo, magari ripeterò alcuni dei concetti già espressi.

 

L’obiettivo della presente relazione è cercare di comprendere se oggi la contenzione fisica in psichiatria ostacola o no la riuscita della cura e delle azioni di nursing, garantendo un ambiente terapeutico per gli assistiti, oppure, diversamente, se si connota per essere una forma di “reclusione” vera e propria.

Quindi, non mi propongo e non propongo a voi, attraverso questa relazione, la dimostrazione di tesi o verità assolute. Ma, se mai, di esplorare quell’area di confine in cui s’intersecano il nursing, la contenzione e l’assistenza psichiatrica. Ritengo che aprire anche una sola finestra, abbia l’importante funzione di immettere e fare circolare un po’d’aria fresca… Questo è possibile…, e credo anche se ne senta la necessità.

 

E quanto sopra, nonostante la quotidianità lavorativa faccia poco per rendere migliore il nostro ‘esercizio professionale’ in ambito psichiatrico, cioè a reale misura della persona assistita.

 

Breve introduzione 

 

Scorreremo rapidamente i vari periodi storici per cogliere quanto è riferibile alle parole chiave di questa mia relazione: 

 

E, al loro interno, rispetto agli obiettivi preposti della Giornata di studio:

 

 

Inoltre, anche rispetto agli obiettivi dello stesso nursing psichiatrico, cioè:

 

  • creare un ambiente di cura che favorisca la ristrutturazione dell’Io del paziente per consentirgli di raggiungere il miglior equilibrio possibile ed un certo grado d’autonomia;

  • instaurare con il paziente una relazione di fiducia basata sulla costante presenza, non invasiva e non repressiva dell’infermiere;

  • svolgere la funzione di “Io ausiliario”:

  1. maternage

  2. contenimento: handling e holding

 

 

Breve analisi storica

 

Perché per parlare di contenzione occorre accennare alla storia della psichiatria?

 

“La storia non è soltanto una pura speculazione intellettuale: la comprensione del passato professionale può, infatti, favorire la consapevolezza dei problemi e delle situazioni che si presentano nel presente”.

 

Si tratta qui, di tenere presente che i rapporti che intercorrono tra la società, la cultura, la legislazione e la pratica psichiatrica sono forti e, leggendoli attentamente, non si ha in tal modo null’altro se non la psichiatria reale costituita dai rapporti tra gli operatori e i malati (che non è quella accademica-tassonomica), e che si muove in una prospettiva che non può che essere storica.

Oggigiorno, il rinnovamento delle istituzioni psichiatriche più chiuse, come gli stessi SPDC, rischia ancora, oppure no, di essere combattuto in acque ferme, vecchie di oltre centocinquant’anni? Non è questo il mio parere, ma il dubbio nasce sicuramente legittimo.

Non si può negare che si parla oggi di SPDC aperti, di abolizione di restrizioni fisiche e di qualsiasi forma, anche larvata, di atteggiamento coattivo e autoritario; si parla di un sistema psichiatrico basato sulla massima libertà dei degenti, sulla fiducia nell’autodisciplina di gruppo, sul massimo rapporto con la società esterna: ma poi si scopre con un misto di sorpresa e frustrazione che tutte queste cose e questi principi erano stati previsti lucidamente, e anche messi in pratica con realismo, dallo psichiatra John Conolly prima del 1850 con il sistema del no restraint, collegato a quello detto delle open door

(E adesso si potrebbe perfino tornare indietro…, se passerà la proposta di legge Burani-Procaccini).

 

Nel 1839 all’ospedale di Hanwell furono aboliti i tradizionali mezzi di contenzione, anche se con l’eccezione dei reparti per acuti…

Inoltre, un altro psichiatra del tempo, E. Marandon de Montyel, così commentava la novità:

 

“Questo alienato che si crede libero, che adesso va e viene, entra ed esce, che non scorge alcun vero limite alla propria libertà, è egli veramente libero? Può commettere del male?. Per nulla affatto, poiché in ogni istante, senza che lui lo sappia, egli è oggetto di una sorveglianza occulta…”.

 

Ci si rende conto che, già allora, gli intenti erano moderni, ma vi è qualcosa che stride. Il discorso di sostituire la coercizione fisica con la leggerezza della sorveglianza occulta non dovrebbe essere ancor oggi accettato, giacché arretrato e contraddittorio, e incompleto!

Certo ci soccorre e ci è di conforto la lettura di questi passi per costatare  l’enorme “evoluzione” del ruolo dell’infermiere psichiatrico, ma ora, gli infermieri “evoluti”, si chiedono come mai nei SPDC l’uso della contenzione non sia definitivamente tramontato insieme ai “guardiani armati di staffile accompagnati da cani feroci”.

 

Le fettucce sono ancora strumenti di una tecnica infermieristica? Occorre diminuirne l’uso, relegandolo ai casi più che eccezionali, oppure eliminarle del tutto?

A mio avviso la questione non è completamente risolta neppure oggi, anno 2004.

 

Allora quali obiettivi ci proponiamo con questa analisi storica?

 

Potremmo ipotizzare di voler approfondire la conoscenza del ruolo dell’infermiere in psichiatria nel passaggio dalla custodia alla sorveglianza fino a quello di operatore della salute mentale e di voler approfondire se vi sono stati, o vi siano oggi, dei criteri che guidano la scelta della contenzione fisica, per un corretto utilizzo alla luce delle norme, ma anche delle evidenze scientifiche.

 

In definitiva, come recita uno degli obiettivi del corso, partire dai modelli organizzativi della psichiatria passata per arrivare ad individuare un modello organizzativo attuale che favorisca, sia per gli assistiti che per gli addetti ai lavori, un ambiente realmente terapeutico, basato sulla relazione e privo di ogni coercizione.

 

In conformità a questi obiettivi si suddivide, comunemente, l’analisi storica in tre periodi:

 

  • Storia antica: dalle origini al 1909

  • Storia moderna: dal 1909 al 1978

  • Periodo attuale: dal 1978 ad oggi

 

E’ soltanto nell’epoca illuminista che si cominciò a delineare il concetto di malattia mentale, considerata oggetto di pratica assistenziale.

E’ rilevante in questo periodo la figura di Jean-Baptiste Pussin, padre simbolico dell’infermiere psichiatrico moderno, collaboratore di Philippe Pinel, psichiatra parigino, che nel 1772 tentò di togliere le catene che legavano i pazienti ricoverati al manicomio di Bicêtre prima e poi della Salpetrière.

A fronte dello stupore degli scettici, convinti che Pinel e Pussin fossero pazzi, l’esperimento ottenne un grande successo, i pazienti migliorarono a tal punto che alcuni poterono lasciare il manicomio.

Nella sua storia del mental nursing, A. Walk (1961) assegna a Pussin un ruolo importante anche come precursore di certi principi ispirati al trattamento morale dei pazienti e all’instaurazione di un regime umano nei reparti: <<Egli svolse il suo compito di sorvegliante come un genitore ben addestrato e vigile>> (Walk, 1961).

Ma ciò non poteva durare in quel tempo: non a caso alla morte di Pussin nel 1811, il suo posto di <<sorvegliante>> fu preso dal medico Esquirol, che teorizzò per l’antesignano dell’infermiere l’importanza del ruolo di <<domestico>> che obbedisse ciecamente al medico soltanto come esecutore e guardiano del corpo (Jager, 1982).

Il tipo di intervento più frequente permesso a questa figura a contatto col malato consisteva nella costrizione attraverso mezzi di contenzione fisica (Mistura 1974, p. 82), intervento sovente punitivo ritenendo che il suo compito fosse di difendere la collettività più che il singolo deviante.

 

In Italia la prima legge in materia nata dal bisogno di regolamentare un fenomeno sempre più incontenibile, fu quella presentata da Giolitti, la n. 36 del 1904, intitolata “Legge sui manicomi e sugli alienati”, che istituì il l’Ospedale psichiatrico e il ricovero per i “matti pericolosi” dietro ordinanza dell’autorità di polizia, seguita dalla n. 615 del 1909 “Regolamento attuativo”.

Le funzioni assistenziali infermieristiche di custodia e domestiche non si modificano sostanzialmente, ed erano finalizzate a far rispettare le regole, controllare e contenere i comportamenti disturbati e disturbanti.

Nel 1968 si arrivò a una prima parziale revisione della legge del 1904, promulgando il governo la legge sull’assistenza psichiatrica n. 431, la quale aboliva l’obbligo dell’iscrizione del paziente al Casellario Giudiziario, riconosceva la possibilità di ricovero volontario e prevedeva l’istituzione dei centri di igiene mentale (CIM).

L’attenzione del legislatore nei confronti del malato di mente ha subito, nel corso del novecento, una vera “rivoluzione copernicana”: dalla difesa della società dall’“anormale” si è infatti passati alla tutela del malato da una convivenza sociale cui risulta difficilmente adattabile.

 

La legge di riforma psichiatrica n. 180 fu promulgata nel maggio 1978, intitolata “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, e venne poi inserita all’interno della legge n. 833.

Il principio ispiratore diventa il fatto che il malato di mente ha gli stessi diritti degli altri pazienti e quindi non deve più essere curato in base alla pericolosità sociale con la custodia; la cura e il ricovero diventa una libera scelta della persona, solo in casi particolari si può intervenire contro la sua volontà tramite un  trattamento sanitario obbligatorio (TSO), definito un atto sanitario non di controllo sociale.

Tale nuova impostazione scuote dalle fondamenta il principio stesso del ricorso a mezzi di contenzione, al punto da ipotizzarne l’incompatibilità con il principio della volontarietà del trattamento sanitario, sancito dall’art. 1, comma 1°, della legge 180/78.

Tuttavia, la previsione nella medesima legge 180 di ipotesi di TSO, unitamente alla citata elaborazione giurisprudenziale volta ad ammettere la compatibilità del trattamento volontario con la coazione (nei momenti di minor capacità di autodeterminarsi del malato) hanno permesso la sopravvivenza di norme come gli artt. 34 e 60 R.D. 615/1909, anche se appaiono invero quali relitti di una concezione superata della malattia mentale.

Fermi restando i problemi di coesistenza e di applicazione pratica, la vigenza delle citate norme del R.D. 615/1909 è fuori discussione.

Ma vi è di più: il legislatore del 1978, abrogando espressamente solo gli artt. 1-2-3 della legge 14 febbraio 1904 n.36 (Disposizioni sui manicomi e sugli alienati), ha manifestamente inteso salvare la restante normativa della legge e del Regolamento successivo ritenendola, almeno in parte, compatibile con la nuova disciplina.

 

Pacifico che gli odierni SPDC rappresentino agli occhi dei più la continuità storica con i vecchi “manicomi”, costituendo una risposta allo stesso problema seppure nuova e molto diversa.

A questo punto, ben lungi da me il voler fornire in questa sede giudizi di valore sulla questione della contenzione, mi pare però necessario dover auspicare una rielaborazione almeno univoca della poca normativa, onde adeguarla allo spirito ed alla lettera della giurisprudenza contemporanea e della storia più recente, per facilitarne l’interpretazione, e per chiarire, una volta per tutte, la sfera di autonomia e la specifica responsabilità degli operatori sanitari.

 

Aspetti  epidemiologici e clinici

 

La contenzione è praticata in numerosi “setting” della medicina: molti pazienti sono contenuti in sala operatoria, nei servizi di Pronto Soccorso, nei reparti di medicina e chirurgia, per evitare di compiere movimenti che possano recare loro danni o comunque sempre con l’intento di salvaguardare l’incolumità del soggetto delle cure.

Per la contenzione svolta in questi ambiti può verificarsi una minore considerazione, da parte del personale, delle sequele cliniche e dell’eventuale liceità sia sul piano etico che legale.

 

Sono definiti mezzi di contenzione fisici e meccanici i dispositivi applicati al corpo, o nello spazio circostante la persona, per limitare la libertà dei movimenti volontari (L.K. Evans, 1991). Rientrano in questa categoria:

 

  • corpetti con bretelle e cinture;

  • bracciali o fettucce per polsi e caviglie;

  • cintole pelviche;

  • cinture di sicurezza per letto;

  • spondine complete per letto.

 

Non sono considerati mezzi di contenzione:

 

  • bracciali che impediscono la flessione del braccio;

  • spondine che proteggono metà letto.

 

Le giustificazioni cliniche per l’uso di questi presidi sono veramente pochissime:

 

  • non servono assolutamente per controllare la confusione e l’agitazione, che a volte peggiorano;

  • non prevengono le cadute, anzi, qualora avvengano con la contenzione le conseguenze sono più gravi;

  • rimangono specifiche situazioni eccezionali, in cui vi è reale impossibilità nella somministrazione di farmaci, o comportamenti palesemente aggressivi.


E’ chiaro che in ambito psichiatrico l’uso di pratiche di contenimento assume anche una rilevanza del tutto diversa, in quanto non possiamo dimenticare un passato nel quale erano agite sistematicamente, con mezzi che talvolta le rendevano molto più simili alla tortura che non a trattamenti terapeutici. L’unica accezione oggi sostenibile questo termine è di contenzione fisica diretta, per la quale, si intende l’immobilizzazione del malato al letto tramite l’uso di fascette.

Fortunatamente i vecchi mezzi contenitivi quali catene, gabbie, sedie munite di cinghie per finire con lo strumento maggiormente evocato nell’immaginario collettivo, la camicia di forza, appartengono ormai alla archeologia psichiatrica e non sarebbero assolutamente riproponibili e giustificabili.

 

Per affrontare l'argomento in maniera esaustiva sarebbe necessario allargare il discorso anche alla contenzione chimica (sedazione) e alla contenzione ambientale (isolamento), ma accumularle sarebbe un indebito traslato.

A differenza di quello che sembra essere il pensiero comune, a tutt’oggi i mezzi di contenzione fisica sono ancora in uso nei reparti di psichiatria, anche se nel nostro Paese non esistono dati statistici noti o pubblicati che possano dare un’idea della vastità e della profondità del fenomeno.

A conferma di ciò, numerose sono le dichiarazioni allarmanti di diversa provenienza: su “la Repubblica” del 25/04/2000, tra gli altri, afferma Renato Piccione, Presidente della Società Nazionale Prevenzione e Salute Mentale: “…in alcuni casi si rischia di riprodurre il manicomio in miniatura. E’ il modello di psichiatria degli operatori quando legano, chiudono i reparti o  fanno impiego della contenzione”.


Ma quando invece la contenzione può essere utile o indicata? Quando si può ritenere eticamente giustificabile? Come per la TEC non esistono studi italiani esaustivi sull’argomento relativi all’uso della contenzione in setting per acuti, pratica che è sicuramente in qualche misura sottaciuta, sottovalutata e sottostimata, mentre è stata oggetto di studi più approfonditi negli altri Paesi europei e negli USA.

Le percentuali americane variano molto secondo le strutture: la media degli ospedali civili parla del 26%. Un paziente su quattro tra quelli che sono ricoverati in ambito psichiatrico è contenuto.

Un’ampia revisione attuata da Fisher nel 1994, ha messo in evidenza come l’uso delle contenzioni e dell’isolamento non sia strettamente legato allo stato psichico del paziente, ma sia da ricondurre all’impronta culturale dei responsabili ospedalieri, che incide significativamente sul modus operandi del servizio. Dallo studio citato si evidenzia inoltre, come in ospedali piccoli (400-500 letti) con personale motivato e preparato l’uso dei mezzi coercitivi sia estremamente ridotto rispetto a strutture situate in zone metropolitane.

 

Aspetti normativi.


La legge 180/78, forse in maniera velatamente ipocrita, non fa alcun riferimento neanche implicito al tema della contenzione. Mancano quindi tutt’oggi chiari indirizzi in termini giuridici, essendo l’unico riferimento alla contenzione riferibile al R.D.615/1909 che all'art.34 specificava che il ricorso a mezzi coercitivi era possibile solo “in casi eccezionali e con il permesso scritto del medico”.

All’art.60 dava ulteriori indicazioni sull’argomento: “nei manicomi debbono essere aboliti mezzi di contenzione degli infermi, e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del Direttore o di un medico dell’istituto. Tale autorizzazione deve riportare la natura del mezzo di coercizione…”


L’interpretazione giuridica più coerente è quella sancita dall’art.54 C.P. (“stato di necessità”) che vede l’attuarsi di una contenzione fisica, in casi estremi e eccezionali, per un periodo di tempo limitato con annotazione dettagliata in cartella clinica, allo scopo di prevenire gli abusi.

 

Alcuni autori però eccepiscono completamente su tale interpretazione che identifica la eccezionalità del tipo di trattamento con lo stato di necessità. Infatti, in base a questo tipo di interpretazione, dovremmo riconoscere che contenere un malato è reato in quanto il citato articolo 54 del C.P. è di natura scriminante.

 

Ai sanitari è riconosciuta la possibilità di ricorrere, nei casi in cui è necessario tutelare il paziente o terzi, alla contenzione considerandola un mezzo terapeutico, estremo e eccezionale. Qui sta la fondamentale discriminante fra la legislazione manicomiale e quella attuale. Prima della legge 180 i mezzi contenitivi potevano essere usati eccezionalmente si, ma anche a scopi custodialistici.

Attualmente, questi ultimi possono essere giustificati unicamente nel supremo interesse terapeutico del paziente. Sarebbe quindi del tutto ingiustificato non solo dal punto di vista etico e morale, ma anche legale, l’uso di tali mezzi per risolvere situazioni assistenziali che richiederebbero un grosso impegno professionale da parte degli operatori.

 

“L’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione fisica e farmacologia sia evento straordinario e motivato, e non metodica abituale di accudimento. Considera la contenzione una scelta condivisibile quando vi si configuri l’interesse della persona e inaccettabile quando sia una implicita risposta alle necessità istituzionali”.

 

L'art. 4.10 del codice deontologico degli infermieri, rinnovato nel maggio 1999, prende in considerazione in maniera esplicita e chiara la questione, senza celare che spesso il ricorso alla contenzione è legato a carenze organizzative istituzionali o peggio, a deprecabili scelte deliberate che permettono una assistenza certo più “comoda”.

Mette in evidenza come l’agire professionale degli infermieri anche quando si renda necessario ricorrere a misure estreme debba mantenere la centralità dell’interesse della persona assistita.


Essendo riportata nel Codice Deontologico esplicitamente la possibilità da parte dell'infermiere di contenere, la pratica viene a rientrare di fatto tra le competenze dell'infermiere ovviamente nei limiti e nei modi posti dal Codice Deontologico stesso (art 4.10. Rapporti con la persona assistita) e nel rispetto della libertà e dignità della persona (art. 2. Principi etici della professione).

Per quanto riguarda la responsabilità infermieristica, essendo la contenzione assimilabile a una pratica terapeutica, l'infermiere può contenere soltanto se esiste una prescrizione medica, rispondente alle seguenti regole:

 

registrazione in cartella clinica con l’indicazione della:

  • motivazione circostanziata;

  • durata del trattamento o della sua rivalutazione previa verifica;

  • tipo di contenzione e modalità da utilizzare (solo polsi, polsi e caviglie, ecc.).

 

La comunicazione, in tema di responsabilità, costituisce però parte integrante del trattamento:

 

  • richiede autenticità, uniformità di linguaggio, lavoro di équipe, empatia;

  • è un valido mezzo preventivo contro le azioni giudiziarie.

 

Naturalmente possono verificarsi situazioni talmente urgenti da non consentire la possibilità di seguire la procedura sopra descritta o addirittura che il medico non sia presente fisicamente in reparto.

In questo caso, per poter contenere il paziente, non necessariamente legandolo al letto, deve sussistere il cosiddetto ‘stato di necessità’ (art. 54 C.P.  “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”).

Va dall’altro canto ricordato che, se ricorrono gli estremi dello stato di necessità, la misura di contenzione non solo può, ma deve essere applicata se non si vuole facilmente incorrere nel reato di abbandono di incapaci (art. 591 C.P.).

Il Codice Penale, prevede un’altra situazione in cui la contenzione è giustificata nel caso di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere (art. 51 C.P.), di  controversa applicabilità in ambito sanitario.

Qualora la contenzione fosse ingiustificata perché sostenuta da motivazioni di carattere punitivo o per sopperire a carenze organizzative o, ancora, per convenienza del personale sanitario, si possono configurare i reati di sequestro di persona (art. 605 C.P.), violenza privata (art. 610 C.P.) e maltrattamenti (art. 572 C.P.).

Naturalmente, durante tutto il periodo in cui viene contenuto, il paziente dovrà essere assistito continuativamente e in maniera personalizzata. Qualora, per l’uso dei mezzi di contenzione, si verificassero danni alla persona, si potrebbero configurare altre gravi ipotesi di reato, per responsabilità colposa (art. 590 c.p., ‘Lesioni personali colpose’) o per violazione dell’art. 586 C.P. (‘Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto’).

 

In altri Paesi la contenzione è gestita diversamente. Da pratica terapeutica diventa pratica assistenziale. Per esempio, in Inghilterra il ricorso alla contenzione non viene deciso dal medico, ma proposta da due membri dell'équipe (che possono essere anche non medici ovviamente) e deve essere avvallata dalla caposala.

L’ultimo punto su cui discutere è il seguente: nell’obbligo di sorveglianza e nell’uso dei mezzi contenitivi vi deve essere differenza di obblighi e di trattamento per i pazienti in TSO rispetto a quelli in TSV (trattamenti sanitari volontari)? La scarsa giurisprudenza lo escluderebbe, poiché vi sono sentenze che sanciscono l’obbligo di una più attenta sorveglianza in “ogni reparto” in cui sia ricoverato un paziente che manifesta segni di “squilibrio mentale” (Giurisprudenza Italiana, n°54, pagg.1-2., 1991).

Indubbiamente però le misure contenitive possono essere più giustificabili e rigorose in un TSO, frutto dell’ordinamento che prevede il ricovero coatto, che non in caso di volontarietà.

 

Per completezza, si rammenta che l’uso dei mezzi di contenzione è sempre vietato nei pazienti in età pediatrica (Carta dei diritti del bambino ricoverato in ospedale - Consiglio d’Europa).


Modelli organizzativi e assistenziali

 

Il discorso sarebbe ancora molto lungo e soprattutto sarebbe utile valutare la pratica dal punto di vista infermieristico, avviando progetti di ricerca che rendano evidente i nodi cardine del problema, che poi sono molto simili, credo, ai pensieri che originano le vostre domande sulla contenzione in psichiatria:

 

  • perché contenere?

  • quale è l'entità del fenomeno?

  • quali sono le alternative?

  • esistono in psichiatria evidenze scientifiche sugli esiti?

  • che cosa garantisce maggiormente la dignità del paziente: la contenzione fisica o farmacologica?

 

E ancora:

  • la possibilità di scelta è veramente dicotomica o esiste una terza via?

  • perché alcuni servizi non usano più le contenzioni e altri magari con le stesse risorse si?

 

Volendo riassumere. Tanto più insicuro e passivo sarà il ruolo dei curanti, in un’organizzazione rigida e gerarchica, dominata dai regolamenti e con atteggiamenti draconiani, tanto maggiore sarà, con percorrenza dall'alto al basso, il rischio di una risposta contenitiva fisica. Va anche detto, per onor del vero, che pure l'assenza di una qualsiasi strutturazione e di qualsiasi riferimento normativo dà, a sua volta, il via a quelle "innovazioni" ed a quegli "esperimenti" che rischiano di esaurirsi in un pratico abbandono del paziente considerato "perinde ac cadaver".

Indicare una giusta terza via, rispettosa della tutela dei diritti dell'ammalato, ma anche di quelli dell'équipe assistenziale, sembra sia problematico data l'enorme confusione ideologica che attraversa la psichiatria italiana.

In questo senso il recente dibattito nei Forum infermieristici (InfermieriOnline, NursesArea) ha visto molti fervori ideologici, ma poche ricadute concrete nella prassi organizzativa, dove predominano logiche aziendali di contenimento delle risorse più che di valorizzazione della relazione d’aiuto come strumento “cardine” sia per gli interventi di prevenzione alla contenzione sia durante la cura e assistenza.

 

L’utilizzo della relazione d’aiuto, suggerita come raccomandazione di validità A (insieme alle proposte occupazionali e motorie), da parte di autori quali J.M. Levine, C.A. Quinn, facilita l’approccio con il paziente psichiatrico e previene nei casi di acuzie il rischio derivante da una “escalation”, e può essere una risposta che mi sento di indicare; ma lo è solo nella misura in cui le équipe assistenziali sono:

 

  • ad organici completi;

  • supportate da continui e specifici interventi informativi e formativi;

  • supportate nella ricerca di collaborazione con i famigliari durante il trattamento;

  • operanti in un ambiente fisico sempre adeguato, sicuro e confortevole.

 

Altri Autori, anche se su una base più generale di una rassegna scientifica, criticano le tre principali ragioni che sono alla base della decisione di ricorrere alla contenzione:

 

  • la convinzione che essa diminuisca il pericolo di incidenti e cadute;

  • la considerazione che sia utilizzata per il bene dell’ospite prevenendo l’auto ed eterodanneggiamento;

  • l’idea che la contenzione fisica possa diminuire le preoccupazioni dello staff.

 

In realtà i tempi di assistenza non sono ridotti dall’uso dei mezzi di contenzione, anzi, salgono da 3,00 a 4,50-5,00 ore/die per paziente (J. Blakeslee, 1990).

 

L’evidenza scientifica e la ricerca

 

Non è semplice anche per chi fa ricerca avere a che fare con i “soft data” della psichiatria.

La ricerca a carattere “qualitativo” si basa sulle parole più che sui numeri ed utilizza un ampio ventaglio di termini descrittivi. Le informazioni derivano dalla relazione empatica con il paziente.

Inoltre l’originalità e la specificità del contesto sono un valore, laddove la ricerca quantitativa sottolinea l’importanza della riproducibilità dei risultati a partire dalla generalizzabilità del setting nel quale sono stati ottenuti.

La raccolta dei materiali in esito agli studi di casi clinici psichiatrici è oggi certamente molto più rigorosa che in passato.

Tuttavia, anche se oggi gli psichiatri guardano con maggiore attenzione e competenza alla possibilità di partecipare a sperimentazioni cliniche controllate, mancano però studi comparati sulla contenzione fisica vs farmacolgica, poiché - per ovvi motivi - difficilmente eseguibili, considerando l’ineleggibilità etica e legale dei pazienti nei clinical trial e negli altri studi dai quali sono destinate ad emergere le ottime evidenze su cui trarre le raccomandazioni cliniche di validità A.

Idem, per i motivi sopra esposti, poter pensare a studi di ricerca dove i partecipanti sono allocati a caso per ricevere una di due o più forme alternative di assistenza con lo scopo di creare gruppi di trattamento (pazienti trattati con la contenzione vs non trattati, ndr).


Tornando a noi infermieri, molto più semplicemente, fino a quando una ricerca ben rigorosa non avrà fornito una mole consistente di dati riguardanti la ricaduta di una “buona pratica” assistenziale nella psichiatrica d’urgenza ospedaliera, come prevenzione dell’utilizzo di strumenti contenitivi, non sarà possibile pretendere la messa a punto di interventi di politica economica e sanitaria basati sulle evidenze, che, a livello locale Aziendale, siano capaci di definire le priorità nell’allocazione delle necessarie risorse infermieristiche e strutturali ai reparti SPDC.

 

Può anche essere percorribile, nell’ottica di limitare il più possibile il ricorso ai mezzi di contenzione, l’elaborazione di alcune linee guida di cui il professionista infermiere può avvalersi per l’assistenza.

 

Negli USA, la JCAHO Joint Commission of Accreditation Health care Organizations ha introdotto, nel 1996, nuovi standards relativi alla contenzione applicabili in alcuni settori di cura della salute, allo scopo di assistere il personale sanitario ed i pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più adeguate in circostanze cliniche specifiche. Inoltre, il CMHS Center for Mental Health Services (Programs), nel 2000.

 

Anche il RCN Royal College of Nursing di Londra ha elaborato, nel 1989, delle indicazioni all’uso della contenzione, così come il DHS Ministero della Salute Inglese, nel 1984.

 

Per quanto detto in precedenza, le linee guida si sono basate più sull’opinione degli esperti (Consensus based) piuttosto che sulla revisione sistematica della pratica (Evidence-based) e Meta-analisi.

 

Il recente progetto obiettivo “Tutela della salute mentale 1998-2000” (DPR 10 Novembre 1999), demanda al Ministero della Sanità l’emanazione della metodologia e i criteri fondanti la stesura delle “Linee guida e procedure di consenso professionale”. Tra le tematiche in oggetto, pur non accennandosi direttamente alla coercizione, sono però contemplate le modalità di effettuazione del TSO.

 

Seguendo il solco tracciato, alcune realtà Italiane hanno avviato un processo di revisione della metodologia infermieristica, in particolare attraverso studi epidemiologici e percorsi formativi ad hoc orientati alla stesura di strumenti operativi applicabili per la gestione della contenzione fisica (procedure, protocolli).

 

Si parte dalle “raccomandazioni” contenute nelle Linee guida che rappresentano uno strumento indispensabile, documento formale, per definire con chiarezza i criteri per:

 

  • analizzare i casi clinici in cui si considera utile ed appropriato la pratica della contenzione al fine di ridurre il ricorso;

  • scegliere il mezzo di contenzione più adeguato;

  • garantire un’omogeneità di trattamento nell’applicazione e nel monitoraggio della contenzione.

 

I consigli forniti dalle Linee guida possono essere utilizzati per i pazienti psichiatrici che, a causa di situazioni particolari ed eccezionali, necessitano di un temporaneo intervento contenitivo.

 

Il percorso, dunque, si conclude con la produzione di “Protocolli infermieristici” che tutelano nell’erogazione delle prestazioni il rispetto dell’efficacia e della dignità del paziente psichiatrico, e cercano di normare l’intervento contenitivo alla stregua di un intervento terapeutico. Possono riguardare:

 

  • il monitoraggio dei mezzi di contenzione;

  • la promozione della compliance nelle persone con stato di coscienza alterato;

  • la prevenzione delle cadute accidentali nel paziente con stato di coscienza alterato.

 

Nel protocollo sono proceduralizzate:

 

  • le azioni (identificazione del paziente; informazione; prescrizione-annotazione; utilizzo del mezzo adeguato; posizionamento; controllo);

  • le risorse (umane e materiali);

  • i destinari (pazienti affetti da malattie, sindromi, stati).

 

Inoltre, i presidi utilizzati a scopo di contenzione devono essere elencati, con la descrizione e le avvertenze d’applicazione.

 

Le raccomandazioni (possono essere di validità A, B, C); in genere sono basate su raccomandazioni di esperti (C). A scopo di riferimento, cito quelle federali del DHHS Departement of Health and Human Services (USA), le quali prevedono:

 

  • la contenzione non può superare le 12 ore consecutive salvo che non lo richiedano le condizioni del paziente;

  • la sorveglianza almeno ogni 30 minuti e la valutazione ogni 3-4 ore dell’eventuale insorgenza di effetti dannosi diretti;

  • la garanzia nei confronti del paziente della libertà di movimento per almeno 10 minuti ogni 2 ore, con esclusione della notte;

  • l’utilizzo di una scheda dove registrare le osservazioni durante la sorveglianza e i conseguenti interventi adottati.

 

Le complicanze legate all’uso scorretto e/o prolungato dei mezzi di contenzione si dividono in tre categorie (S.H. Miles, P. Irvine, 1992):

 

  1. Traumi meccanici:

  • strangolamento;

  • lesioni dei tessuti molli superficiali;

  • asfissia da compressione della gabbia toracica.

 

  1. Malattie organiche e funzionali:

 

  • aumento dell’osteoporosi;

  • incontinenza;

  • infezioni;

  • lesioni da decubito;

  • diminuzione della massa, del tono e della forza muscolare.

 

  1. Sindromi della sfera psicosociale:

 

  • paura e sconforto;

  • depressione;

  • umiliazione;

  • stress.

 

I messaggi che arrivano al paziente soggetto a provvedimento contenitivo sono di:

 

  • pericolosità;

  • dipendenza: dipendere dall’infermiere che deve rispondere a ogni bisogno;

  • spersonalizzazione: privazione della libertà che può inficiare la ristrutturazione  del proprio Io.

 

Sono dei messaggi assolutamente “non facilitatori” di relazioni evolutive con il paziente.

 

Per correttezza, si deve anche riportare la precisazione in merito al fatto che molti autori non concordano sull’idea di standardizzare tramite protocolli il ricorso a una procedura (come quella contenitiva) che deve rispondere ad eventi assolutamente eccezionali nella pratica infermieristica e, pertanto, che richiede un’applicazione sempre individualizzata e diversa da caso a caso.

 

Altre suggestioni sono state accennate nella mia esposizione e vorrei lasciarle alla vostra valutazione per il dibattito finale.

 

Conclusione

 

Gli infermieri che lavorano in salute mentale stanno cambiando; sono sempre più motivati e preparati rispetto al passato.

Io credo che prima o poi riusciremo a farci sentire anche su questo fenomeno nascosto della contenzione che fino ad ora stiamo vivendo in maniera occulta e passiva e, in alcune casi, subendone anche pesanti rischi legali, quando non fisici, inficiando la relazione con gli assistiti, che resta sempre lo strumento primario dell’infermiere che opera con disagiati psichici.

 

Bisogna però tenere conto, onde non offrire ai media un’immagine di professionisti facilmente dediti al delitto, che sul piano delle cose concrete non è oggi possibile una soddisfacente soluzione diversa senza un intervento del legislatore.

Ne può essere un segnale da cui partire la solita ambivalenza della nostra “società” che “pressa” gli operatori della psichiatria, avanzando compulsivamente richieste coercitive di ogni genere, quando un paziente si fa autore di reati e, invece, all’opposto in altre circostanze.

 

La contenzione in psichiatria non dovrebbe mai diventare una risposta data dal singolo infermiere, équipe o SPDC; bensì una questione da risolvere prima all’interno della nostra stessa società e nell’ambiente culturale, da cui deriva ogni miglioramento verso la chiarezza della norma giuridica. Infine, soltanto infine, forse la questione della contenzione potrebbe essere ripresa dalla “Professione” nel suo insieme, in un’ottica Anglosassone, come “uno” dei “problemi assistenziali” e non solo “terapeutici”…

Io sono anche preoccupato dall’emergere imperioso dell’escamotage provvisorio, di un atteggiamento non chiaro di “medicina difensiva”, che viene a “contagiare” la psichiatria, in passato esageratamente priva di problemi giudiziari, per via della scarsa tendenza alla querela dei pazienti, mentre attualmente ne è in balia.

 

“Di tale atteggiamento difensivo ne soffrono, com’è noto, i pazienti portatori di problematiche complesse, che così vengono ad usufruire non della migliore cura e assistenza ma di quella che si espone a minori rischi giudiziari, quanto gli operatori stessi”.

 

Certo la nostra buona capacità professionale ci viene in aiuto, e ci permette di operare adeguatamente anche in condizioni di incertezza. E’un po’il nostro destino…, non basta, occorre un forte impegno di tutti per trovare la chiave per il rilancio. “Colmare la differenza relativa tra ciò che avviene nella realtà, rispetto al pensiero degli infermieri…”.

 

“La contenzione si presenta quando le persone, ancor prima dei pazienti, non sono trattate nel modo giusto, adeguato e conforme ai loro bisogni…” 

        Bruno Bettelheim

 

 

 

Prima di salutarvi, vi informo che ho lasciato a disposizione alcuni riferimenti bibliografici, per chi volesse approfondire ulteriormente l'argomento della contenzione per lo specifico della psichiatria. Naturalmente, sono anche disponibile a rispondere, tramite e-mail, a chi vorrà contattarmi per uno scambio di pareri professionali.

Grazie a tutti.

 

“Non è una novità individuare e rifiutare la sopraffazione dell’uomo sull’uomo; non è una novità cercarne le cause, rifiutando di coprirle sotto il pregiudizio. Ma finché la sopraffazione e la violenza sono ancora Leitmotiv della nostra realtà, forse non si può che usare parole ovvie, per non mascherare sotto la costruzione di teorie apparentemente nuove il desiderio ultimo di lasciare le cose come stanno”

 

                                                                                                      Franco Basaglia

 

 

 

Indirizzo per la corrispondenza:

 

[email protected]

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Bibliografia

Benci L., Manuale giuridico professionale per l’esercizio del nursing, 2° edizione, Mc Graw - Hill, Milano, 2001.

 

Benevelli L., Baraldi E., Romiti A., Negrisoli L., Porte chiuse, contenzioni, isolamento nei servizi di assistenza psichiatrica. E’ possibile farne a meno?, Atti del XLII Congresso Nazionale - SIP, Torino, 2000.

 

Conolly J., Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, Einaudi, Torino, 1976.

 

“Contenzione: una pratica da limitare”, L’infermiere, marzo/aprile, 1998.

 

Fascio V., Burn-out sindrome, fuga dalla psichiatria: una conseguenza fatale?, Inventario di Psichiatria, anno II, n°8-9, Torino, 1992.

 

Piccione R., Milano S., La neomanicomialità dipartimentale e la contenzione fisica nei reparti psichiatrici di diagnosi e cura, Rivista Sperimentale di Freniatria, Vol. CXXVI, n°1 - 2/02, Franco Angeli, Milano.

 

Piccoli M., L’infermiere e la follia: origini e prospettive, in Spinsanti C. (a cura di), Bioetica nella professione infermieristica, pp. 186-189.

 

“Nuovo Codice Deontologico dell’infermiere” (art. 2, 4.10).

 

“Costituzione Italiana” (artt. 13, 32).

 

“Codice Penale” (artt. 54, 591, 610).

 

 

Dalla rete:


Una utilissima rassegna di Giuliana Centini che guida a tutti i siti più interessanti  sull'argomento.

http://www.ipasvi.it/link/percorsi/contenzi.htm  

 

La rubrica sull’assistenza psichiatrica curata da Claudia Giovannelli e Valter Fascio per InfermieriOnline, con links specifici sull’argomento.

http://www.infermierionline.net/


Un articolo presente sul sito della Federazione che affronta il tema da tutti i punti di vista.
http://www.ipasvi.it/link/rivista/infermiere/2 1998/docsch1.htm


Sul sito degli infermieri eretici gli Atti della Giornata di Studio "Contenere le contenzioni" organizzata dall'AINS.

http://digilander.iol.it/aquilonelibero/atti_della_giornata_di_studio%20contenere%20la%20contenzione%20ok.htm

 

La ricerca effettuata sulle banche dati da parte del Centro Studi EBN - Direzione S.I.T. ASO Bologna - Policlinico S. Orsola.

http://66.102.11.104/search?q=cache:ASJtxmtaQhsJ:www.evidencebasednursing.it/revisioni/lavoriCS/01_1_G_contenzione.pdf+%22contenzione%22&hl=it&ie=UTF-8

_1_G_contenzione.pdf+%22contenzione%22&hl=it&ie=UTF-8

 

La tesi di laurea di Alfredo Maglitto “Leicità della contenzione a letto dei malati psichiatrici”.

http://www.studiocelentano.it/publications_and_thesis/Maglitto/

 

 

References:

 

1. CRAG Clinical Resource and Audit Group, Scotland (1996) Good Practice Statement on the Prevention and Management of Aggression.

 

2. Ministry of Health, New Zealand (1994) Guidelines for reducing violence in mental health services.

 

3. Ministry of Health, New Zealand (1993) Procedural Guidelines for Physical Restraint.
 

4. Ministry of Health, New Zealand (1995) Procedural Guidelines for the Use of Reclusion.
 
5. HMSO Department of Health, London (1998) Code of Practice to the Mental Health Act 1983 (3rd edition). 

 

6. JCAHO Joint Commission of Accreditation Health care Organizations, USA (1996) Standards  relativi alla contenzione.

 

7. Kerr, I.B. & Taylor, D. (1997) Disturbed or violent behaviour: principles of treatment. Journal of Psychopharmacology, 11, 271-277.

 

8. Royal College of Psychiatrists, London (1996) Assessment and Clinical Management of Risk of Harm to Other People.

 

9. Royal College of Psychiatrists, London (1998) Good practice in anticipating and preventing violence - Guidelines.


10
. RCN Royal College of Nursing, London (1989) Indicazioni all’uso della contenzione.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato su InfermieriOnline il 30.04.04      Il redattore di questo sito ringrazia per la disponibilità alla diffusione del presente articolo.

 

 

 

 

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