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Spdc

Leicità della contenzione a letto dei malati psichiatrici

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Tesi di Laurea di Alfredo Maglitto

Indice

Capitolo I

  1. Profili definitori. Il concetto di coercizione nel trattamento psichiatrico.
  2. Il concetto di trattamento sanitario.

Capitolo II

  1. Liceità dei trattamenti sanitari con particolare riferimento ai trattamenti sanitari psichiatrici.
  2. Teoria dell’azione socialmente adeguata.
  3. Le scriminanti non codificate.
  4. Teoria dello scopo riconosciuto dallo Stato e dell’attività autorizzata dall’ordinamento.
  5. Teoria della mancanza dell’elemento soggettivo.
  6. Teoria dell’assenza della tipicità del fatto tipo di reato.

Capitolo III
Le cause di giustificazione codificate

  1. Le scriminanti codificate.
  2. Il consenso dell’avente diritto; i requisiti del consenso; il consenso prestato dall’avente diritto; il problema della forma; attualità e revocabilità del consenso; le informazioni sul consenso.
  3. Lo stato di necessità; attualità del pericolo e assenza di contributi nella causazione dell’evento di pericolo; l’altrimenti evitabilità del pericolo; equivalenza ( o prevalenza) del bene salvato rispetto a quello sacrificato; trattamento sanitario e dissenso del paziente; conclusioni sull’operatività del consenso dell’avente diritto e lo stato di necessità.
  4. L’esercizio di un diritto.
  5. L’adempimento di un dovere.

Capitolo IV

  1. Il consenso informato
  2. Il consenso informato in ambito psichiatrico

Capitolo V

  1. Trattamenti sanitari e Costituzione.
  2. Trattamenti sanitari e consenso.
  3. Trattamenti sanitari obbligatori e coattivi
  4. Trattamenti sanitari obbligatori psichiatrici.

Capitolo VI
Conclusioni sulla responsabilità professionale dello psichiatra

Giurisprudenza

Bibliografia

 

Capitolo I

1. Profili definitori.
Il concetto di coercizione nel trattamento psichiatrico.

Il titolo della tesi "Gli atti coercitivi nel trattamento sanitario psichiatrico" introduce la difficoltà di far convivere nella stessa espressione due concetti così distanti fra loro. Gli atti coercitivi fanno riferimento ad una situazione nella quale si fa uso della forza fisica, presumibilmente per vincere una resistenza, il che stride con l’opposta situazione del trattamento sanitario.

Sennonché l’aggettivazione "psichiatrico" aggiunge, in via di fatto, un elemento di differenziazione che modifica fortemente il senso della frase.

Infatti secondo un sentire comune in ambiente psichiatrico, il ricorso ad atti di coercizione nel rapporto terapeutico è un evento "doloroso" ma, almeno in taluni casi, "necessario". I vari indirizzi delle scuole di pensiero della psichiatria si dividono soprattutto in relazione all’effettiva efficacia terapeutica della pratica in questione: chi la ritiene necessaria , chi assolutamente dannosa. In mezzo naturalmente vi sono varie posizioni con varie differenziazioni. Appare invece estranea alle concettualizzazioni delle scuole psichiatriche l’idea stessa della possibile contrarietà alla legge degli atti coercitivi.

Dalla scarna letteratura di settore si evince infatti che il problema viene dato come risolto lasciando residuare soltanto problemi di carattere organizzativo. Altrove invece, il problema viene affrontato in termini più direttamente giuridici e viene risolto in termini apparentemente poco ponderati (un più approfondito esame verrà fatto nel corso della tesi).

Da questo quadro e dal fatto, (che trova riscontro sia nella letteratura appena citata che nella stampa quotidiana), che comunque la pratica della coercizione rispetto al malato di mente è alquanto frequente trova origine l’idea della presente tesi.

Essa vuole affrontare il problema della liceità o meno della predetta pratica, tenendo presente quell’atto di coercizione che tranquillamente può definirsi paradigmatico. Mi riferisco alla cosiddetta contenzione a letto; una pratica che si sostanzia nel legare a letto con delle cinghie il paziente.

Non saranno estranee alla presente tesi neanche altre situazioni che parimenti integrano fatti di coercizione di facile riscontro in ambiente psichiatrico (è preferibile limitare, ai soli fini della presente tesi, l’ambiente psichiatrico alle sedi di ricovero.); in particolare:

  1. alimentazione forzata a pazienti anoressici (esistono alcuni protocolli terapeutici che prevedono una sorta di Living Will a carico del paziente che però viene applicato anche in situazioni di semplice rifiuto di cure);
  2. divieto delle uscite dal reparto per i primi giorni dopo il ricovero, volontario, e successivamente limitazione a delle fasce orarie ( non sempre tale misura è giustificata dalla necessità di proteggere il malato da atti autolesionistici… più spesso dal fatto di garantirsi una permanenza in reparto tale da permettere agli psicofarmaci di agire a vantaggio del medesimo);
  3. altre situazioni nelle quali non si fa uso diretto della forza fisica e si ricorre a pressioni indirette per ottenere comunque il comportamento desiderato.

Solitamente questo avviene senza il consenso del paziente, più precisamente avviene contro la volontà del paziente medesimo…anche se trattasi di consenso di paziente psichiatrico che può essere minato nella sua validità dalle stesse condizioni di salute di chi deve fornirlo.

Da qui il paradosso di dover "lavorare" proprio sulla capacità di prestare il consenso….e lavorarci, ovviamente, inizialmente senza il consenso.

Perciò il difficile compito di chi deve saper valutare le condizioni di salute del paziente che soccorre anche per ciò che attiene l’influenza delle condizioni di salute sulla capacità di autodeterminarsi (intendere e volere, badare ai propri interessi, a se stesso.. etc.).

Ovviamente l’intervento sanitario non assistito dal valido consenso del paziente ed eventualmente ( come vedremo in seguito) neanche dallo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., può avvenire solo nel rispetto delle norme della Costituzione che tutelano i diritti inviolabili dell’individuo.

Infatti, a norma dell’art. 32 Cost. i trattamenti sanitari che di regola sono volontari possono essere obbligatori solo se previsti dalla legge e nei limiti del rispetto della persona umana. Si vedrà dopo che esistono differenze fra trattamenti sanitari obbligatori e coattivi…nel senso che i primi sollevano il sanitario dall’obbligo di procurarsi il consenso dell’avente diritto mentre solo per i secondi si autorizza ( si fa obbligo?) il sanitario a fare uso della forza fisica.

Forti dubbi si nutrono sul fatto se i t.s.o. sono trattamenti coattivi anche per i riflessi in ordine all’art.13 Cost.

Già da queste poche note appare come il problema risulta complesso e rimandi da un lato al cosiddetto " diritto a rifiutare le cure" come diritto alla salute, che come vedremo infra, sarebbe disciplinato dallo stesso art.32 1° comma della Costituzione, e dall’altro all’interesse della collettività alla tutela della salute, che si combinerebbe con l’art. 2 della Costituzione medesima. Nel seguito della tesi si tratterà il tema della liceità degli atti di coercizione nell’assistenza psichiatrica, partendo dal tema della liceità del trattamento sanitario in genere e seguendo la classica impostazione della dottrina e della giurisprudenza, che equipara l’atto chirurgico classico dell’incisione della cute ( per eseguire un intervento operatorio) al fatto tipico del reato di lesioni personali di cui all’art. 582… salvo poi applicare una scriminante codificata o meno. Si terrà conto anche di quanti ritengono che il trattamento sanitario sia già lecito a livello di fatto tipico. Tanto nell’una quanto nell’altra opzione interpretativa si dirà delle difficoltà applicative al caso peculiare del rapporto con il paziente psichiatrico.

Si dovrà dire diffusamente dei trattamenti sanitari obbligatori nella loro impostazione ideologico-giuridica, e della particolarità del trattamento sanitario obbligatorio psichiatrico di cui agli art. 34 e 35 della L.833 del 1978; in specie della eventuale compatibilità con la specifica forma di coercizione della contenzione a letto. Infine si parlerà dei trattamenti sanitari coattivi; in che modo essi differiscono dai t.s.o.,( ed ove può dirsi che esistano) del loro profilo giuridico di liceità.

Si darà ulteriormente conto del fatto che la contenzione a letto non è l’unica forma di coercizione riscontrabile in ambiente psichiatrico e delle ragioni di una scelta così selettiva.

A sentire le spiegazioni che vengono fornite dagli psichiatri, il ricorso a mezzi di coercizione avviene per motivi che apparirebbero abbastanza indefiniti all’occhio di un ipotetico frettoloso giurista, ma sempre motivati dalla necessità di tenere al riparo il paziente da pregiudizi alla propria salute.

Si va dalla necessità di prevenire gesti autolesivi, o anche eteroaggressivi, fino al rischio di suicidio. Come si vede si tratta di motivi serissimi e di grande rilevanza sociale, ma non sempre strettamente "clinici".

Quest’ultima osservazione aggiunge un elemento di disturbo alla linearità della riflessione; ci costringe ad affrontare un problema che ha un notevole grado di preliminarità.

Si tratta di sapere se la contenzione a letto può considerarsi atto medico con tutto ciò che eventualmente ne deriverebbe in ordine alla liceità del trattamento medico chirurgico, o se è da considerarsi "altro", e in che relazione sta con i trattamenti sanitari ( dalla mera indifferenza ad una eventuale accessorietà).

2. Il concetto di trattamento sanitario 

La definizione di trattamento sanitario per le implicazioni storiche in merito alla sua liceità è preliminare alla discussione che segue. In effetti, nella letteratura medico-legale, varie sono le definizioni di trattamento medico chirurgico, ed in questo elaborato si dovrà darne conto, e cercare di individuare elementi precipui nella definizione di trattamento psichiatrico.

L’importanza della definizione del trattamento medico-chirurgico non è meramente descrittiva, ma ha delle notevoli implicazioni specialmente in ordine al problema della responsabilità professionale. Varie definizioni hanno sempre più allargato lo spazio di quegli atti medici che rientrano nella definizione stessa di trattamento medico-chirurgico.

La meno lata, e anche più antica, definizione sembra essere quella del Grispigni che è del 1914:"una modificazione dell’organismo altrui compiuta secondo le norme della scienza, per migliorare la salute fisica e psichica delle persone". Da questa definizione, però, rimanevano fuori alcune attività mediche effettuate non sull’uomo ma indirizzate lo stesso alla tutela della salute della persona; le attività diagnostiche. Ed infatti la seguente definizione sembra comprendere anche tali attività, definendo il trattamento sanitario come qualsiasi azione " posta in essere da parte di un medico nell’esercizio della sua attività professionale, diretta al fine di favorire le condizioni di vita di un essere vivente". Si argomenta, infatti, che anche gli atti diagnostici sono da considerarsi terapeutici perché si inseriscono in un complesso di atti finalizzati a giovare alla salute del paziente; ed infatti più puntualmente il Cattaneo "Vanno compresi nel generico concetto di trattamento medico-chirurgico tanto le operazioni chirurgiche, quanto i rimedi di medicina interne, ed anche le cure psichiche. Vi rientrano anche gli interventi diagnostici, quelli diretti cioè ad accertare quale sia la malattia di cui soffre il paziente….Si può dire poi che il fine giovare alla salute è presente anche nell’azione del medico diretta a diminuire la sofferenza fisica, nonché in quella diretta a rinforzare l’organismo. Restano invece al di fuori di questo concetto altre attività, non per questo necessariamente illecite, per le quali occorre fare un discorso a parte…..Inoltre restano fuori tutte le attività non obiettivamente dirette ad un miglioramento della salute, oppure eseguite in modo contrario ai dati della scienza, oppure non consentite dal paziente né giustificate dall’urgenza e dallo stato d’incoscienza di quest’ultimo." Ancora altri autori, propongono una definizione che contempla tutti gli elementi dell’insieme considerato come trattamento medico-chirurgico, e si tratta di tutte quelle azioni od omissioni che il medico pone in essere, secondo i dettami della scienza , come:

  1. visita medica ( esame di parti del corpo, ecc.);
  2. attività preparatorie dirette a fine diagnostico ( indagini radiologiche, prelievi di sangue, ecc.), a fine operatorio ( narcosi prima delle operazioni, ecc.) o al fine di preparare l’esecuzione di altri interventi;
  3. profilassi ( con vaccini, sieri, ecc.);
  4. trattamenti antidolorifici ( somministrazione di mezzi o iniezioni antidolorifiche, ecc.);
  5. somministrazione di farmaci ( via perorale, via sottocutanea, via intramuscolare, via endovenosa, via endoarteriosa, via endoarachidea, via parenterale, via rettale, ecc.);
  6. interventi terapeutici vari a favore del paziente (operazioni, elettroshock, cure fisiche e psichiche, ecc.);
  7. interventi a favore di terzi ( trapianto di organo, trasferimento di parti della cute, trasfusione del sangue, ecc.);
  8. interventi con finalità non terapeutiche ( inseminazione artificiale, trattamento cosmetico e plastico, sperimentazione sulla persona umana, cc.).

Come si vede la definizione è piuttosto lata. Tuttavia per quanto ampia tale definizione e per quanto sembra contemplare azioni preliminari rispetto al trattamento sanitario vero e proprio, almeno prima facies, non sembra autorizzare il ricorso ad atti coercitivi . Si tratta stabilire se il trattamento sanitario psichiatrico abbia una sua particolarità per cui gli atti di coercizione ed in particolare la contenzione a letto possa giustificarsi ( al di là di altri aspetti di liceità) rientrando in uno degli interventi di contorno rispetto al trattamento sanitario vero e proprio.

Perciò si pone adesso il problema di qualificare se gli atti coercitivi siano atti medici in senso generale ( cioè compiuti da medico all’interno di una relazione medico-paziente) e quindi privi di una finalità medica in senso stretto, o configurino un trattamento sanitario come fin qui definito.

Un caso giudiziario può esserci utile per il problema della definizione del trattamento sanitario. Si tratta infatti, come appena detto di stabilire cos’è trattamento sanitario e cosa invece non lo è. Nella sentenza appena citata si era, fra l’altro e in via incidentale, posto il problema di ripartire le competenze fra vigili urbani ed altre forze dell’ordine pubblico e operatori sanitari in merito alla esecuzione dei trattamenti sanitari obbligatori di cui alla L. 833 del 23/12/ 1978 art.34 e 35.

Brevemente i fatti:

in esecuzione di un ordinanza, emessa dal sindaco competente, con la quale era stato disposto t.s.o. a carico di una donna malata di mente, vi era stata strenua resistenza da parte della stessa all’atto di salire sull’ambulanza per essere trasportata nel reparto del SPDC (dove subire il trattamento). Il vigile urbano presente all’operazione ( verrà poi rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 328 del c.p.) a fronte del rifiuto dell’infermiere (anch’egli presente) a collaborare non portava a termine l’ordinanza medesima.

Il pretore argomenta l’assoluzione dell’imputato ( il vigile urbano) ritenendo che:

"la particolarità del paziente ammalato di mente impone speciali provvedimenti "interventi, mezzi e terapie particolari, di natura sanitaria, e non, ma invero altrettanto necessari, di carattere propedeutico e complementare alle cure più propriamente riabilitative" e poi ancora "E’ infatti intuitivo che anche l’atto materiale della "cattura" dell’alienato, trattandosi appunto di un malato particolare, richiede particolare accortezza e particolari cognizioni tecnico-scientifiche, tal che esso può essere compiuto nella maniera più idonea soltanto dal personale sanitario,…." Quindi un concetto di trattamento piuttosto dilatato che comprende anche " mezzi non sanitari" "di carattere propedeutico e complementare"; sembra davvero poterci stare di tutto.

Il Giudice nell’assolvere il vigile urbano ha ritenuto che l’apprensione materiale della paziente recalcitrante al t.s.o. non è "atto d’ufficio" del vigile urbano e fonda tale opinione, fra l’altro, su di un parere dell’Avvocatura dello Stato. In tale parere si legge che "il prelievo ed il trasporto del malato di mente è da intendersi ormai una mera operazione sanitaria rivolta alla tutela della salute e dell’incolumità dell’alienato".

Ritiene, ancora il Pretore, che tutta l’operazione dell’attuazione del t.s.o. richiede competenze diversificate tali che comunque la "direzione" dell’intera operazione spetti agli operatori sanitari che devono fornire precise direttive alle forze dell’ordine pubblico eventualmente intervenuti. L’intervento delle forze dell’ordine pubblico, sempre a parere dell’Avvocatura dello Stato, ha carattere residuale ed eccezionale ; solo quando si è in presenza di fatti che possono esitare ad integrare reati. La motivazione della sentenza conclude con un riferimento all’infermiere rimasto inerte per il quale "per le note ragioni di difficoltà d’interpretazioni della normativa, ritiene il Giudicante di non procedere attualmente ad alcuna incriminazione….."

Com’è abbastanza chiaro, il giudice attribuisce compiti di coazione al personale sanitario qualificando come sanitari gli atti medesimi. Nessun accenno a problemi di differenza fra trattamenti solo obbligatori e altri eventualmente coattivi… si ritiene di operare all’interno di trattamenti coattivi però eseguibili da personale sanitario..

Numerose e qualificate, nonché immediate, furono le reazioni a tale interpretazione.

Già nello steso anno della pronuncia della sentenza sulla prestigiosa "Rivista Italiana di Medicina Legale" venivano pubblicati appassionati articoli soprattutto ad opera di psichiatri. Codesto ruolo di sanitario che cura attraverso la coazione veniva respinto con forza oltre che sul piano deontologico soprattutto su quello scientifico. In particolare si rifiuta l’idea che atti di coercizione ( o anche non coercitivi) siano preliminari o complementari al trattamento vero e proprio solo perché rivolti ad un malato mentale….si argomenta, per absurdum, che, così ragionando anche riporre il pigiama in valigia al paziente è atto medico. Ovviamente si sottolinea il pericoloso allargamento della sfera di responsabilità dell’operatore sanitario.

All’opposto, dall’altro lato, non mancavano psichiatri che sostenevano opinioni opposte con argomentazioni che si sono mantenute fino ai giorni nostri.Il dibattito interno alla letteratura scientifica psichiatrica ha mantenuto le posizioni iniziali di quanti ritengono che atti di coazione in quanto "oggettivamente e dolorosamente necessari" sono sanitari se inseriti in un programma terapeutico che li contempla come temporanei. In particolare, autori come Greco O. e Catanesi R., fanno esplicito riferimento alla contenzione a letto attraverso l’uso di fascette etc…Tali presìdi sono sanitari solo se "parte integrante di un trattamento e non come misura autonoma, di esclusiva prevenzione comportamentale". Si argomenta, giuridicamente, partendo dall’assunto che essendo quella del medico una obbligazione di mezzi ( e non di risultato) e non dovendo quindi il medico " guarire" ma solo applicare con adeguatezza di mezzi la terapia consona ad una determinata patologia. I mezzi adeguati si ritengono essere tutti quelli necessari a scongiurare una evoluzione sfavorevole della malattia. Sembra riecheggiare la ben nota teoria fondante la liceità del trattamento sanitario sull’adempimento di un dovere ove, specie per Bricola, sembrano autorizzati trattamenti sanitari contro la volontà del malato in quanto per l’adempimento del dovere non rileva il consenso. Altri, all’opposto, negano decisamente ogni possibile profilo sanitario degli atti di coazione ( scuola basagliana) partendo dalla considerazione che qualsivoglia forma di violenza rivolta al paziente, ancorché necessaria, compromette in radice il rapporto di fiducia che necessariamente si deve instaurare con il paziente stesso. Taluni, anche quando trattano argomenti specifici come l’aggressività del paziente, fanno una classificazione degli interventi a disposizione dello psichiatra che vanno dal tipo farmacologico al tipo relazionale o sistemico, e non contemplano la coazione fisica….eppure i pazienti aggressivi sarebbero proprio quelli che più di ogni altro "necessitano" di strumenti restrittivi. Quando misure di sicurezza vengono citate incidentalmente esse vengono considerate esterne al rapporto terapeutico stesso. In molti dei manuali di psichiatria il problema della contenzione non è neanche affrontato apparendo così chiaramente scotomizzato. Altri manuali, di scuola anglosassone, quand’anche affrontano il problema, ex professo, non accennano a nessuna problematica di tipo medico-legale; ad ogni modo il fatto che si tratta di autori non italiani e che si riferiscono a situazioni non italiane consente di dubitare sul se si siano posti problemi di comparazione giuridica.

Più di recente si registrano interventi da parte di organi dello Stato consultati dalle varie U.S.L. e dai vari Comuni chiamati ad applicare le norme relative al t.s.o. A seguito di varie sollecitazioni, il Ministero della Sanità, con circolare 213066 del 21-9-92 risponde agli assessorati alla sanità delle Regioni e Provincie autonome di Trento e Bolzano: dopo aver fatto chiaro riferimento al parere dell’Avvocatura dello Stato in precedenza citato, e ad un precedente parere dello stesso Ministero della sanità, con l’attuale parere il medesimo Ministero dimostra di volersene discostare. Si può dire che il seguente passaggio chiarisce meglio di qualsiasi argomentazione il parere del Ministero: "un provvedimento di t.s.o., una volta emesso, impone a dei sanitari di intervenire professionalmente, con gli atti tecnici ritenuti più opportuni. Poiché tali atti devono essere eseguiti a prescindere dal consenso dell’interessato, è necessario attivare ogni forma di persuasione, facendo leva sul proprio bagaglio professionale. Qualora persista una situazione di rifiuto e di opposizione ( o ancor più specifici rischi di pericolosità), gli operatori sanitari hanno l’obbligo di segnalare l’impossibilità di eseguire il provvedimento all’autorità che lo ha emanato ( il Sindaco) non competendo ad essi l’adozione di mezzi coercitivi. In tal caso l’esecuzione del provvedimento può essere effettuata solo attraverso l’intervento della forza pubblica…." Tale orientamento viene successivamente fatto proprio dal Ministero degli Interni ( Prefettura di Modena 31-8-93 prot. 2147/12b-1). Sulla stessa lunghezza d’onda, anche se con provvedimenti precedenti a quelli dei Ministeri, la Regione Emilia Romagna con direttiva del 11-4-89 n 1457.

Dal combinato disposto dei pareri dei Ministeri e della Regione appare abbastanza evidente la scelta di campo degli organi pubblici che così hanno ribaltato il precedente parere dell’Avvocatura dello Stato più volte citato. Anche se il parere in questione disciplina il riparto delle competenze fra forze dell’ordine e sanitari, implicitamente finisce per negare la medicalità degli atti di coercizione che esplicitamente ritiene non di competenza dei sanitari. Nella direttiva della Regione Emilia Romagna viene, invero, fatto salvo il ricorso allo stato di necessità di cui all’art. 54 del c.p. ma solo per disciplinare casi eccezionali che appartengono al diritto comune di ogni situazione di necessità e che comunque non ci aiutano a qualificare determinati atti come sicuramente medici.

Tuttavia nonostante la chiarezza della posizione "ufficiale" del Ministero non mancano Autori che danno per scontata la medicalità (sempre condizionale al trattamento vero e proprio) degli atti di coazione. Altri spunti di riflessione possono essere tratti dalla sentenza della Suprema corte, sezione penale IV, del 19/12/79. Nella sentenza in parola, veniva confermato il giudizio di Appello della Corte di Napoli del 31/10/78 confermativo a sua volta della sentenza del Tribunale di Napoli. Si tratta di pronunce di condanna nei confronti di medici e di personale di custodia che nel susseguirsi dei turni di lavoro avevano omesso di liberare un detenuto in precedenza contenuto a letto in seguito ad una crisi di agitazione psicomotoria. Si deve precisare che si tratta di condanna per lesioni personali e non per violenza privata o sequestro di persona; lesioni che il detenuto legato a letto si è procurato dibattendosi violentemente nel vano tentativo di liberarsi. Il medico

che sostituì il collega che aveva applicato la misura di sicurezza ( assolto in primo grado) venne condannato assieme ad altri per aver omesso di interrompere la misura di sicurezza e sostituirla con altre misure terapeutiche sedative di tipo farmacologico. Nel ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato ritenne essere nella valutazione del medico la decisione fra la prosecuzione della contenzione o la sostituzione con altra misura terapeutica; e ciò per il ben noto motivo della colpa professionale…

Nel rigettare il motivo della difesa così, fra l’altro, argomenta la Suprema Corte:

"la contenzione, poteva essere giustificata come rimedio d’urgenza, momentaneo ( per ciò venne assolto il primo medico che la dispose) diveniva viceversa illecito protrarla senza curarsi delle lesioni che ne derivavano al detenuto, e poi ancora, non è stata posta, nei precedenti giudizi, in discussione la valutazione sull’opportunità medica di scegliere una terapia o un’altra… ma solo evitare che il detenuto subisse lesioni …il problema medico sarebbe sorto solo dopo aver fatto cessare lo stato di costrizione…sulla scelta del tipo di farmaco più idoneo nella specie (…). La S.C. valuta come atti di coercizione leciti in ambito carcerario ( art. 41 L.354 del 26/7/75….) le varie forme di costrizione fra l’altro disciplinate dal D.P.R 431 del 29/4/76 ( art.77) e non come atti medici. Tuttavia il fatto che la misura costrittiva, anche se finalizzata a scopi diversi dalla cura, è pur sempre ordinata da un medico lascia spazi aperti ad interpretazioni sulla medicalità dell’atto coercitivo in questione. E nella pratica quotidiana tale provvedimento, come già detto, trova riscontro anche in ambiente civile ( diverse ricorrenti campagne di stampa ne danno ciclicamente risalto). Di questo bisognerà tenere conto nel prosieguo dell’elaborato.

inizio

Capitolo II

1. Liceità dei trattamenti sanitari con particolare riferimento ai trattamenti sanitari psichiatrici

Che possa ancora discutersi della liceità del trattamento sanitario eseguito lege artis, a prescindere dall’esito che può anche essere fausto, può apparire un paradosso strano, specie se riferito ad una professione che nessuno nega essere fra le più nobili. Invero è da precisare che nessuno dubita della liceità del trattamento sanitario eseguito a regola d’arte ci sono semmai divergenze di opinioni, antiche, sul fondamento della liceità medesima. Il dubbio sorge quando si ritiene, specie in riferimento all’intervento chirurgico, integrato ( o no) il fatto-tipo del reato di lesioni personali, art. 582 c.p., salvo poi ricorrere alle scriminanti (codificate o meno) per giustificare il fatto.

Altri ritengono invece non integrato il fatto-tipo di reato giustificando l’azione del medico in quando socialmente adeguata e riconosciuta dallo Stato come degna della maggior tutela. Altri ancora argomentando sul concetto di malattia in senso scientifico, ben diverso da quello fatto proprio dalla prevalente giurisprudenza in ordine al reato di lesioni personali, ritengono atipico l’intervento chirurgico in quanto incidente su una malattia già in corso e quindi, se eseguito lege artis, non può dirsi che abbia causato la malattia che voleva rimuovere.

Di tutte le teorie rapidamente accennate si darà conto successivamente, premeva qui solamente dare conto di come il problema risulti impostato teoricamente, e cercare infine di capire se dette impostazioni teoriche possono aiutarci a dare una collocazione teorica al problema della coercizione nel trattamento psichiatrico.

Indubbiamente tutte o quasi le teorie sulla liceità del trattamento sanitario sono state pensate con la mente rivolta all’intervento chirurgico; di qui il problema della integrazione del fatto-tipo di lesioni personali. L’incisione del chirurgo viene ritenuta lesione personale non punita perché l’avente diritto, con atto di disposizione del proprio corpo ha dato il consenso scriminante di cui all’art. 50 c.p.. Al di là dei problemi dei limiti del consenso e di altre problematiche delle quali si dirà dopo, una impostazione del genere a molti è apparsa avvilente per il medico e per la sua professione; ed infatti già E. Schmidt faceva notare già negli anni ’30 che così si finisce per paragonare il bisturi del chirurgo al pugnale del criminale.

Essendo che il trattamento psichiatrico coercitivo di per sé non pone problemi di lesioni personali ( nel caso sarebbero paragonabili a quelle di altri rami della scienza medica) ma semmai di privazione della libertà e quindi relativi all’art. 610, 613 o al limite 605 c.p. si impone il problema di un distinguo tra il fatto-tipo del trattamento sanitario ed il trattamento psichiatrico.

In specie se possono porsi problemi di fondamento della liceità del trattamento psichiatrico peculiari rispetto a quelli sanitari in genere posto che a dispetto del fatto che il paziente oppone un "suo"rifiuto sovente il trattamento si realizza con forme "necessariamente" coercitive.

Nelle pagine seguenti verranno fatte alcune considerazioni sulle principali teorie sul fondamento della liceità del trattamento sanitario e per ognuna di esse si farà riferimento ai trattamenti psichiatrici. Particolare attenzione riceverà la questione del consenso che di regola deve essere informato e dello stato di necessità. Tanto l’uno, (il consenso), quanto l’altro,(lo stato di necessità), hanno nel trattamento psichiatrico un propria peculiarità. E valgano essi come requisiti-limite al trattamento o come scriminanti fondanti la liceità del trattamento medesimo mettono tuttavia a dura prova le resistenza delle teorie implicitamente richiamate. Basti qui anticipare soltanto che si ritiene pacifico nel rapporto con il malato mentale che, in molti casi, il consenso validamente espresso giunge alla fine del trattamento… e ciò proprio perché il disturbo mentale non raramente investe anche la capacità di autodeterminarsi. Proprio la capacità di autodeterminarsi può essere l’oggetto del trattamento sanitario in parola; il recupero di essa il fine dell’alleanza terapeutica fra il malato ed il medico.

Rispetto invece allo stato di necessità, nella sua dimensione codificata, si può dire che raramente risulterebbe applicabile in psichiatria; e ciò per i seguenti motivi:

Passiamo adesso ad analizzare le varie teorie sulla liceità del trattamento sanitario.

2. La teoria dell’azione socialmente adeguata

Fra le teorie che non inquadrano il tema delle liceità del trattamento sanitario passando per la necessaria integrazione formale del fatto-tipo di reato ( salvo il successivo ricorso alle scriminanti codificate e non) v’è quella cosiddetta dell’azione socialmente adeguata. Nata in Germania agli inizi degli anni trenta

( soffrì successivamente di aberranti applicazioni naziste) ad opera dello Schmidt e del Welzel è stata coltivata in Italia dal Bettiol e, dal Fiori nella sua versione integrale. E’ stata utilizzata anche dagli assertori delle scriminanti non codificate ( Vassalli per lo stato di necessità medica, de iure condendo,), dal Mantovani, dall’Antolisei e dal Manna.

Come detto in precedenza si tratta di stabilire se con la mera integrazione del fatto-tipo del reato sol perché integra la fattispecie astratta prevista dalla norma legale può dirsi realizzato il reato. Siamo com’è agevole comprendere nell’ambito dell’antigiuridicità nella sua dialettica fra l’antigiuridicità formale contrapposta all’antigiuridicità sostanziale-materiale. Vale a dire chiedersi, in altra parole, se di un fatto per essere penalmente rilevante è necessaria e sufficiente la sua contrarietà alla legge ( o all’oggetto della medesima) o è richiesta un ulteriore contrarietà a valori propri della comunità di riferimento dell’ordinamento giuridico che esprime la norma? In un ordinamento giuridico sostanziale non ci sarebbe nessuna difficoltà ad accogliere tale principio; esso si sposa infatti benissimo con i valori delle comunità a diritto materiale come lo furono gli ex paesi socialisti che si rifacevano nella applicazione della legge penale ai principi del socialismo. Nella nostra area culturale sono prevalenti gli ordinamenti a legalità formale e anche il nostro lo è; per la precisione sarebbe, per dirla con il Mantovani formale-sostanziale. Il fatto reato è sì contrarietà alla legge, ma non a qualsiasi legge… solo a quelle leggi conformi o non contrarie ai valori fatti propri dalla Costituzione. Risulta perciò confermato il principio del nullum crimen sine lege inteso a garanzia dei diritti fondamentali della persona.

Tuttavia del principio di stretta legalità si conoscono i difetti connessi soprattutto alla sua tendenza ad operare secondo certi automatismi che possono portare a punire autori di fatti tipici senza che esista altra offesa che la stessa formale violazione di legge.

Uno di questi fatti "tipici", controversi, può appunto essere il trattamento sanitario che, nella versione dell’intervento chirurgico, come visto sembra integrare il fatto tipico delle lesioni personali di cui all’art. 582 del c.p.

A questo stato di cose intende appunto reagire la teoria, cosiddetta dell’azione socialmente adeguata che introduce elementi valutativi del fatto tipico tali da far escludere l’interesse dello Stato, degli stessi consociati, a punire un’azione che viceversa viene ritenuta degna della migliore valutazione sociale. Per il Bettiol questa copertura si avrebbe soltanto nei casi di intervento con esito fausto; non così il Fiore che ritiene ogni caso di trattamento medico azione socialmente adeguata. Di quest’ultimo Autore essenziale è riportare un brano tratto dalla sua opera che tratta dell’azione socialmente adeguata " L’attività sanitaria non può non risultare oppressiva degli stessi bene per la cui conservazione e il cui accrescimento è consapevolmente organizzata e diretta: l’integrità fisica, la vita, la buona salute. L’eventuale pregiudizio di uno di questi beni, che sia connesso con la condotta causale del sanitario, si realizza nell’ambito di un attività posta al servizio del rispetto dello stesso bene; perciò il dolore fisico, il rischio e la perdita stessa della vita non giocano di per se alcun ruolo per una rilevanza penale del fatto. Il decorso causale dell’azione si annulla nel significato dell’atto, che va al di là dell’esito del singolo procedimento operatorio, anche se questo sia destinato, in concreto, a risolversi in una effettiva lesione di interessi." Quindi intrinsecità delle lesioni nello stesso trattamento medico-chirurgico ma giustificazione per il significato dell’azione stessa rivolta alla tutela degli stessi beni che è "costretta" a ledere. Non è negato il nesso di causalità fra il fatto, poniamo, dell’incisione chirurgica e la lesione personale si ritiene che manchi l’offesa al bene in tutela della stessa norma che punisce le lesioni personali è ciò, lo si ricorda sulla base di considerazioni di "valori" non positivamente riscontrabili nell’ordinamento giuridico. La scusabilità del fatto non avviene nel luogo dell’antigiuridicità ma in quello della tipicità; in altre parole l’azione socialmente adeguata non è una scriminante… è il fatto stesso del trattamento sanitario che non è tipico rispetto al reato di riferimento ( che nella mente degli autori citati è quello di lesioni personali per via del noto paradigma bisturi-pugnale).

La teoria dell’azione socialmente adeguata introduce l’idea che il reato non contiene solo gli elementi tipici della fattispecie ma contiene anche un giudizio sull’azione. Rispetto a quest’ultimo punto elementi di riflessione si possono trarre dall’interpretazione dell’art.49, 2° comma del c.p. laddove ritiene impossibile il reato per la inidoneità dell’azione ( ai nostri fini non rileva il discorso relativo alla mancanza dell’oggetto) che rende impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

Marcello Gallo rispetto al problema della sfasatura tra la descrizione formale e la violazione dell’interesse tutelato ritiene l’art.49 2° comma " una valvola di sicurezza" del sistema. La norma in questione non sarebbe, come vuole parte della dottrina il rovescio del delitto tentato di cui all’art 56 c.p. ma avrebbe una sua precisa autonomia funzionale. Si tratterebbe di una clausola generale dell’ordinamento per cui un’azione, considerata equivalente all’intero fatto di reato, perfettamente corrispondente al tipo descrittivo di parte speciale sarebbe mancante, per l’inidoneità dell’azione, della possibilità dell’evento dannoso o pericoloso. Vi sarebbe così un chiaro riferimento positivo alla teoria dell’azione socialmente adeguata.

Secondo un’altra versione della teoria in parola più attenta al momento della condotta l’azione sarebbe dannosa o metterebbe in pericolo il bene tutelato dalla norma ma non vi sarebbe tipicità del fatto perché adeguata alla società che la ritiene necessaria e di alto valore.

Tutte le critiche mosse alla teoria dell’azione socialmente adeguata sono relative alla sua indeterminatezza e al fatto che verrebbe ad essere vulnerato il principio di legalità e di certezza del diritto con il richiamo a valori esterni alla norma.

Rispetto al problema degli atti coercitivi nel trattamento psichiatrico c’è da vedere se la teoria appena succintamente esposta può fornire argomenti agli assertori della liceità della contenzione ( si ricorda che il paradigma mentale di riferimento del presente lavoro è appunto la contenzione).

In effetti, come già detto in premessa, raramente si trovano trattati di psichiatria che affrontano in termini di legalità il tema della contenzione; al più quelli che si ritengono più liberali considerano illegale l’abuso senza mai spiegare come e perché l’uso dei mezzi di contenzione sarebbe consentito. Anche di recente, essendo stato il problema della contenzione stato sollevato dagli organi di stampa localesi è assistito a numerose dichiarazioni da parte di autorevolissimi esponenti della psichiatria locale; tutti però d’accordo con la constatazione che a certe condizioni la contenzione a letto è "dolorosamente necessaria". La discussione al massimo verteva sul superamento, come strumento terapeutico, del ricorso a tale pratica, sui controlli da effettuare in esecuzione della contenzione, sulla tenuta di registri ecc.. Da un altro lato le dichiarazioni dell’assessore regionale per l’Emilia Romagna alla sanità e gli inviti di quello alle politiche socialia denunciare fatti del genere. La posizione degli organismi pubblici politici, il clamore della stampa e l’eco che ha avuto e le opinioni di psichiatri "non di frontiera" sembrano deporre per la non adeguatezza dell’azione sociale che si sostanzia nella contenzione e non sembrano apparire ostacoli per estendere tale giudizio anche agli altri atti coercitivi sopra ricordati. Come ricorda il Manna finché non è " sicuramente determinato che la condotta in oggetto sia effettivamente conforme agli scopi di una intera società " non può dirsi che l’azione è socialmente adeguata. E se è vero che dobbiamo guardare all’azione nel suo significato sociale pur con tutti i dubbi sulla sua adeguatezza sociale non si può negare che di regola il paziente si oppone al trattamento coattivo e non possiamo non porci problemi relativi al diritto di autodeterminazione dello stesso e al rispetto della dignità umana. Nemmeno per ciò che riguarda la tesi del reato impossibile di cui all’art. 49 2° comma del c.p. può dirsi che gli atti di coercizione sono indifferenti all’ordinamento giuridico penale. Infatti se può essere vera la non integrazione del reato di lesioni personali per fatti di contenzione a letto ( piccole escoriazioni ai polsi ne tentativo di liberarsi dai legami, disfonia conseguente alle urla che sovente accompagnano la contenzione) e ciò perché l’azione non sarebbe idonea ad integrare il reato di lesioni personali risulta difficile contestare l’integrazione del fatto tipo del reato di violenza privata di cui all’art.610 del c.p. Inoltre non è fuori luogo nutrire dubbi sulla medicalità di atti che si traducono in uso della forza fisica pur se " corollario" rispetto al centrale trattamento psico-farmacologico.

3. Le scriminanti non codificate

Per affinità d’impostazione teorica con quella cosiddetta dell’azione socialmente adeguata appare opportuno passare a trattare delle teorie sulle scriminanti non codificate. Gli autorevoli sostenitori di tali teorie, fra gli altri Antolisei e Vassalli, ritengono di individuare nella medesima attività medico-chirurgica una scriminante non codificata che non consente, sul piano dell’antigiuridicità, di ritenere tipici ( almeno rispetto al reato di lesioni personali o di omicidio) gli atti medico-chirurgici posti in essere "lege artis" abbiano essi avuto esito fausto o meno ( diverse opinioni fra Antolisei e Vassalli sul punto dell'esito).

Logicamente va’ chiarito un punto che è preliminare sia rispetto alla dinamica delle scriminanti in parola che rispetto agli eventuali limiti e requisiti di legittimità. Se si chiamano scriminanti non codificate è per lo minimo perché appunto non sono positivamente codificate; allora come trovano ingresso, secondo dottrina, nell’ordinamento giuridico? Qui a contendersi il campo sostanzialmente sono due teorie: quelle che ritiene lecito il ricorso al procedimento analogico e quella che ritiene di fare ricorso ai cosiddetti limiti taciti della norma penale.

3.1 Teorie che fanno ricorso al procedimento dell’analogia

Per ciò che attiene alla prima, e cioè quella che ritiene lecito il ricorso al procedimento analogico in ambito penale, si distingue a sua volta fra quanti ricorrono all’estensione analogica delle scriminanti codificate ( in particolare Vassalli), e quindi analogia legis, e quanti facendo riferimento ai principi ispiratori delle scriminanti codificate, in specie al cosiddetto principio del bilanciamento degli interessi, estendono l’operatività del meccanismo scriminatorio a fatti della vita sociale degni del massimo rispetto com’è appunto per le attività medico-chirurgiche.

3.1.1

Per quest’ultima dottrina bisogna, principalmente, fare riferimento all’Antoliseiil quale nel fare ricorso al meccanismo dell’analogia iuris distingue fra trattamenti con esito fausto e trattamenti con esito infausto(naturalmente entrambi eseguiti "lege artis"). Solo i secondi sarebbero scriminati dalla attività medico-chirurgica grazie al suo alto valore sociale; sicché nel bilanciamento dei beni in gioco l’interesse della società ad un attività come quella medico-chirurgica prevale o è equivalente a quello del diritto all’integrità fisica o all’autodeterminazione. Se invece l’intervento ha avuto esito fausto non può nemmeno dirsi che sia stato integrato il fatto tipo di reato e ciò perché il medico ha contribuito a migliorare lo stato di salute del paziente non già a peggiorarlo. Come appare chiaro il ricorso all’analogia è qui "iuris" perché l’Autore dopo avere individuato i principi regolatori delle scriminanti codificate li estende ad altri fatti della vita sociale di alto interesse; infatti accanto alla attività medico-chirurgica individua anche l’attività sportiva e le informazioni commerciali. Sulle critiche a tale teoria di dirà più avanti dopo aver detto della teoria fatta propria dal Vassalli.

3.1.2

Il Vassalli si occupa del tema delle scriminanti non codificate, fra altre opere, in un celebre saggio a commento di due sentenze, del Tribunale e della Corte d’Appello di Firenze, dove in particolare la prima è di estremo interesse per la teoria dell’Autore per il quale rappresenta un coraggioso tentativo di evadere dal diritto scritto.

Può essere utile qui riprodurne la massima :

"Anche in difetto di prestazione del consenso costituisce causa di giustificazione non codificata, ma ammissibile per analogia, il trattamento medico-chirurgico diretto a procurare, mediante sterilizzazione tubarica in occasione di parto cesareo, l’incapacità di procreare di una donna pluricesarizzata e con l’utero in gravi condizioni, se concorre il pericolo anche futuro ed eventuale per la vita della paziente in caso di successiva gravidanza. " (…)

L’interesse della sentenza (già nella massima) non risiede "soltanto" nella asserita esistenza di cause di giustificazione, ma come vedremo anche nella possibilità, riconosciuta, del ricorso all’analogia legis per l’introduzione di scriminanti non codificate.

Infatti, come si legge, vi è un estensione dello stato di necessità anche a situazioni di pericolo non già attuali ma future ed eventuali; ed è ciò che lo stesso Vassalli definisce stato di necessità medica. Come già detto il Vassalli ritiene lecita estensione dell’operatività delle scriminanti esistenti a situazioni che difettano di qualche elemento strutturale, in specie l’adempimento di un dovere , il consenso dell’avente diritto(esteso al consenso presunto), lo stato di necessità(necessità medica…o futura) e ciò sempre in virtù dell’alto valore sociale della attività medica.

Entrambe le teorie sono state criticate per la indeterminatezza su cui poggiano i presupposti politico-sociali delle scriminanti medesime, per il pericolo a cui espongono la garanzia alla libertà (a presidio della quale vi è il principio di legalità e determinatezza della norma penale che rischia di essere vulnerato), per la non riconosciuta possibilità del ricorso al criterio dell’analogia(anche se in bonam) ex art. 14 delle preleggi al codice civile, per la ritenuta non estensibilità delle scriminanti già di suo …estese… fino al massimo grado.

L’art. 14 delle leggi preliminari al c.c. ( cosiddette preleggi) dispone che "Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati" introducendo il tal modo il principio del divieto di analogia per le norme penali e per quelle eccezionali. Allora qui il problema diventa quello di vedere se le cause di giustificazione sono norme penali e/o eccezionali o solo penali. Si discute in dottrina se per norma penale bisogna intendere solo le norme incriminatrici o anche le cause di giustificazione(in quanto norme di liceità). Una prima via di ingresso delle scriminanti non codificate nell’ordinamento giuridico potrebbe già essere questa: le scriminanti non sono norme penali, ma sono esterne ad esse, appartengono al momento dell’antigiuridicità, e quindi fuori dal fuoco dell’art.14 delle preleggi… di conseguenza estensibili(via legis o iuris) a nuovi casi; sarebbe inoltre analogia in bonam partem. E’ in buona sostanza la teoria tripartita del reato che considera lo stesso strutturalmente come costituito dal fatto materiale, dall’aspetto soggettivo, e dall’antigiuridicità che così si colloca all’esterno.

Contro, i sostenitori della teoria bipartita del reato, che ritengono che l’antigiuridicità sia "l’in se" del reato e quindi insuscettibile di estensione analogica in quanto così sarebbe essa stessa norma penale. Ancora il dibattito si è sviluppato attorno alla questione del se le cause di giustificazione siano da intendersi norme eccezionali rispetto alle norme penali, e nel caso opererebbe il divieto di analogia di cui all’art. 14 delle preleggi e dagli artt. 1 e 199 del c.p. nonché 25 comma 2° della Cost.. Oppure, al contrario, siano da intendersi norme regolari e quindi estensibili analogicamente a nuove cause di giustificazione.

Il problema, s’intende, non è solo teorico. Infatti la risoluzione in una direzione rispetto ad all’altra ha effetti applicativi notevoli incidenti soprattutto sul diritto alla libertà. Ed attribuire al giudice il potere di colmare le lacune del diritto in ordine alle norme penali significa porre in serio pregiudizio i principi di legalità e di tassatività che sono a tutela del diritto alla libertà oltre che alla esigenza di certezza del diritto. Ora proprio quest’ultimo aspetto del problema e cioè la dinamica fra certezza del diritto ed esigenze di libertà offre argomenti a vantaggio della tesi che consente l’analogia delle scriminanti. In verità, si sostiene, il bene in tutela con il principio espresso dalla combinazione delle norme dell’art.14 delle preleggi 1 e 199 del c.p. e 25 comma 2° della Cost. è proprio quello della libertà nel senso espresso dalle istanze che furono della Rivoluzione Francese; sarebbe quindi paradossale che per far salvo un sacrosanto principio della certezza del diritto e dalla legalità si punisse un cittadino negandogli l’estensione analogica di una norma di giustificazione. Si oppone ancora a quest’ultimo "affondo" che così operando verrebbero svuotate di significato norme come quelle contenute nell’art.2 e 3 della Cost. nel senso di tutela dei diritti personalissimi dell’uomo; come diritto alla sicurezza sociale e a vedersi garantiti come vittima.

Come si vede il problema delle scriminanti non codificate è tuttora aperto in ordine ai suoi presupposti stessi teorici. Tuttavia sappiamo come tale impostazione teorica non è accolta dalla maggioranza della dottrina e quasi per niente dalla giurisprudenza salvo casi eccezionali (come quello citato all’inizio del paragrafo cosiddetto "caso Ingiulla"; questo spiega fra l’altro il perché di tanto clamore. Per altro non va trascurato il fatto che, a meno di due anni di distanza dalla sentenza del Tribunale, la Corte d’Appello si è pronunciata ribaltando completamente le argomentazioni del Tribunale favorevoli, come abbiamo visto, all’accoglimento delle scriminanti non codificate.

3.2 Teorie che fanno ricorso ai limiti taciti della norma penale

Ad accomunare questa teoria a quella delle scriminanti non codificate è il Manna nel celebre saggio "Profili Penalistici del Trattamento Medico-Chirurgico" perché, ad un attento esame, i risultati cui giunge la teoria in esame sarebbero gli stessi di quella appena analizzata della teoria dell’ammissione per via analogica delle scriminanti; con in più maggiori elementi di indeterminatezza.

Autori della teoria dell’esistenza dei limiti taciti della norma penale sarebbero principalmente il Nuvolone e il Boscarelli. Secondo questi due Autori, che sostengono la teoria bipartita del reato, le scriminanti non hanno una propria autonomia ma sono parte integrante della norma incriminatrice e di conseguenza a tutti gli effetti norme penali; da qui il divieto di applicazione analogica a casi diversi da quelli codificati. Tuttavia lo stesso viene avvertita l’esigenza di dare soluzione a casi come quello dell’attività medico-chirurgica che non sarebbero coperti dall’area di tutela delle scriminanti.

Come dare quindi cittadinanza giuridica a fenomeni della vita sociale pur ritenuti di alto valore? Da qui i limiti taciti della norma penale.

Ogni norma penale ha dei propri limiti applicativi, cioè a dire fatti che non ricadono nel "fuoco" applicativo della norma medesima. Tali limiti possono essere espressi o inespressi. I secondi che possono a loro volta essere "legis" o "iuris" sono quelli su cui bisogna concentrare la nostra attenzione; per i limiti espressi, com‘è intuitivo è la stessa norma ad indicarli.

Tutte le norme penali si ispirano a principi propri e si tratta di vedere quali sono " è dunque necessario operare un raffronto fra la norma penale ed il principio ad essa sotteso,……; anche per individuare la possibilità di estensione della disposizione normativa, non più, però, in base all’analogia, bensì mediante il ricorso al principio logico da cui la prima trae origine". La norma penale sarebbe così in un certo senso come "accerchiata" da limiti applicativi inespressi e sarebbe compito dell’interprete individuarli tanto nella consuetudine quanto nell’istituzione. Ora i limiti alla norma penale sarebbero quelli che altrove sono le scriminanti e i limiti taciti sono le scriminanti non codificate ottenute però non tramite il ricorso all’analogia ma appunto con l’individuazione dei limiti taciti alla norma penale.

Questa teoria non ha avuto molto seguito né in dottrina né in giurisprudenza. 

Altri autori hanno ritenuto che la ricerca dei limiti taciti della norma penale è assimilabile all’estensione analogica e quindi a questa teoria sono estensibili le stesse critiche mosse alla prima.

Comune alle due teorie in parola è il fatto del consenso dal quale per nessuno degli Autori è possibile prescindere. Per l’Antolisei infatti il consenso del paziente è requisito-limite al trattamento medesimo; se il consenso non può essere prestato si ricorre al consenso presunto. Per il Vassalli vale, come sappiamo il ricorso alle scriminanti non codificate estese per analogia legis a nuove e diverse situazioni rispetto a quelle codificate e quando passa a trattare del consenso ne elenca tutti i difetti nell’applicazione per concludere che nei casi di incapacità a consentire è più opportuno il ricorso allo stato di necessità(ex art.54 c.p.) che pure soffre di innumerevoli difetti salvo interpretarlo in chiave di necessità medica.

Per ciò che riguarda invece i trattamenti psichiatrici, in via di fatto, coercitivi è un dato ontologico che essi avvengono non già senza ma contro il consenso del paziente che anche oppone resistenza fisica. Appare evidente che in casi del genere si è fuori dai casi considerati dalle scriminanti non codificate. Rispetto al dato sociale nulla si può aggiungere rispetto a ciò che si è detto per la teoria dell’azione socialmente adeguata per la semplice ragione che comunque ad essere di "alto valore sociale" dovrebbe essere la condotta. Posto che la condotta si concretizza, per come detto, nell’uso della coercizione nel trattamento psichiatrico vale quanto si è detto rispetto alla condivisone sociale sull’uso della medesima. E quindi, e in altre parole, se vi ha da essere una scriminante non codificata essa(a prescindere della modalità di ingresso nell’ordinamento giuridico) per le modalità di esecuzione deve corrispondere a valori socialmente condivisi da tutti i consociati.

Per concludere, sembra potersi dire che alla società attuale pare deprecabile il ricorso all’uso della forza per far subire a persone malate(per quanto di mente) un trattamento sanitario. E opportuno precisare che ho ripetutamente fatto riferimento all’uso della forza fisica come strumento di coercizione perché ritengo che, a quadro normativo fermo, non è pacifico l’uso della medesima neanche in esecuzione di trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art.34,35 della L. 833 del 23/12/78 e ciò per la nota distinzione fra obbligatorio e coattivo. Ancora si può precisare che una cosa è far subire a taluno un trattamento nonostante la passiva resistenza dello stesso altra cosa è vincerne la fisica opposizione.

Se il quesito della presente tesi era in parole povere: " rispetto a malati di mente si può usare la forza fisica nel trattamento sanitario ad essi rivolto, siano essi in t.s.o. o volontari?" le teorie appena rapidamente passate in rassegna non sembra abbiano dato contributi significativi alla risposta.

Occorre quindi vedere di trovare risposte altrove e perciò si dirà ancora di altre teorie, sul fondamento della liceità dei trattamenti sanitari, che non ricorrono alle scriminanti codificate.

4. Teoria dello scopo riconosciuto dallo stato e dell’attività autorizzata dall’ordinamento.

Queste due teorie, di elaborazione franco-tedesca, sono attraversate da profonde analogie tali da consentirne la trattazione congiunta. Altrettanto evidenti sono le analogie con la teoria dell’azione socialmente adeguata che innegabilmente ispira le due teorie.

4.1 Teoria dello scopo riconosciuto dallo Stato

Per quanto riguarda la prima, dello scopo riconosciuto dallo stato, sorta in Germania agli inizi di questo secolo ad opera del Liszt Franz, si argomenta che se lo stato riconosce, per il suo alto valore, una attività sociale non può essere che poi la stessa è illecita nella sua essenza. Ne consegue quindi che l’attività medico-chirurgica, che è una di queste attività, è lecita anche quando lede o pone in pericolo dei beni parimenti tutelati; l’integrità fisica, la libertà di autodeterminarsi.

E’ abbastanza evidente il richiamo a concezioni collettivistiche e solidali che in nome del superiore interesse sociale impongono trattamenti sanitari. Di ciò sembra essersi accorto lo stesso Autore che tuttavia ritiene necessario il consenso del paziente perché il trattamento possa ritenersi lecito. Ovverosia, in assenza di consenso del paziente, il trattamento pur essendo riconosciuto dallo Stato come opera meritoria, è illecito. Si è già osservato,(Iadecola, Introna ed altri), che vi è contraddizione nel sostenere che un trattamento sanitario è lecito perché riconosciuto dallo Stato e quindi vi è interesse della collettività ma necessita del consenso del paziente…quindi l’interesse diviene quello del singolo. Mi pare invece convincente l’osservazione dell’autore per cui " la convenienza dei mezzi è esclusa dalla mancanza del consenso" e ciò perché lo scopo riconosciuto dallo Stato deve essere confacente all’ideologia della collettività contemporanea al momento del "riconoscimento".

4.2 Teoria dell’attività autorizzata dall’ordinamento 

Anche tale teoria subisce l’influenza della teoria dell’azione socialmente adeguata ed ha delle affinità con la teoria sostenuta dal Mantovani. Ritengono gli autori, specie francesi, di questa teoria che se l’ordinamento autorizza una tale attività deve poi mettere, chi la svolge, in grado di poterlo fare; da qui l’autorizzazione e da qui il ritenuto diritto a curare. Si osserva, che se anche si è autorizzati ad una certa professione non per questo si può fare di tutto; non per questo mezzi autorizzati dall’ordinamento per esercitare la professione non debbano trovare ostacoli di sorta. Ed ostacolo può essere la stessa necessità del consenso; se la liceità del trattamento sanitario trova fondamento nell’autorizzazione alla professione che ruolo gioca il consenso? Il Mantovani sostiene che esso è, assieme ad altri elementi, il requisito-limite richiesto per l’esercizio della professione. Altri autori, specie francesi, si spingono fino ad individuare un vero e proprio diritto a curare che prescinderebbe da consenso. Osserva il Riz che non è mai possibile prescindere dal consenso del paziente perché così facendo si finirebbe con il conferire al medico un potere incontrollato e che esistono altre professioni autorizzate dallo ordinamento ma nessuna di esse risulta esercitabile senza il consenso del "cliente". Così è per l’avvocato, così per l’ingegnere, e non ci sono valide ragioni perché così non debba essere anche per il medico. Inoltre sorgerebbero problemi per i trattamenti eseguiti da valenti medici non autorizzati all’esercizio della professione magari perché stranieri che così rischierebbero di essere incriminati del reato di esercizio abusivo di una professione.

Al di là dei rilievi appena fatti risulta evidente la necessità del consenso con il quale in un modo o nell’altro tutti gli Autori delle teorie appena citate sono costretti a fare i conti. Ne è il paradigma di questo orientamento una relativamente recente sentenza del Giudice Istruttore del Tribunale di Firenze del quale si riportano brani tratti dalla massima: " Il fondamento politico e sostanziale dell’attività terapeutica è nella sua utilità umana, diretta com’è alla salute del singolo (art. 32 Cost.). Il fondamento tecnico formale della sua liceità, inoltre, non va riconosciuto nel consenso dell’avente diritto, nell’adempimento di un dovere o nello stato di necessità, bensì nella scriminante dell’art.51 c.p., trattandosi di attività giuridicamente autorizzata." Quindi esercizio di un diritto ma per il ruolo del consenso così prosegue il Giudice di Firenze:" Il presupposto necessario per la liceità dell’intervento medico è comunque il consenso preventivo del paziente ".

Il processo relativo al rinvio al giudizio che avvenne presso la Corte d’Assise di Firenze si concluderà con un singolare giudizio di condanna del sanitario per omicidio preterintenzionale.

Qui non rileva il fatto della preterintenzionalità e il nesso di causalità fra lesioni personali inferte dal chirurgo senza il consenso e la morte avvenuta due mesi dopo dall’intervento ma l’altro che la condanna è avvenuta perché il trattamento è avvenuto senza il consenso della paziente (nel caso una signora 83enne che aveva dato il consenso ad un altro tipo di intervento) o più precisamente a fronte di un consenso ad un diverso intervento risultato poi, peraltro, essere stato eseguito lege artis. La morte è avvenuta successivamente alla depressione psichica sopravvenuta a seguito dell’intervento esitato inaspettatamente, per la paziente, con l’abboccamento verso l’esterno del canale digerente tramite una colostomia. Di segno totalmente opposto in invece il Pretore di Modica nell’ordinanza del 13/8/90 dove con ricorso ex art.700 del c.p.c. autorizzava la struttura pubblica e di conseguenza il medico ospedaliero ad eseguire trasfusioni ematiche su paziente maggiorenne, capace, dissenziente e in condizioni di salute tali da non integrare ancora lo stato di necessità. Nell’udienza per la chiusura della fase cautelare così argomentava il Pretore: "con il rifiuto della terapia trasfusionale, nelle condizioni in cui è stato espresso, non sarebbe stato un atto di volontà legittimo, ma viceversa, un vero e proprio atto di coartazione nei confronti del ricorrente". E poi ancora: " pretendendo di sindacare i criteri di scelta della terapia e di escludere, perfino, l’unica terapia ritenuta indispensabile per salvare la vita, non esercitava il proprio legittimo diritto alla libera osservanza del proprio credo religioso. Intendeva viceversa, imporre coattivamente alla struttura pubblica e al sanitario che la rappresentava, l’osservanza di quel credo costringendoli ad osservare una condotta omissiva contraria, anzi, opposta, alla finalità che l’una e l’altro avevano l’obbligo di perseguire: la cura e salute dei degenti" Non c’è, credo, bisogno di dilungarsi in commenti; qui( a parere del pretore) il sanitario esercita un proprio diritto-dovere ed il paziente con il suo atteggiamento contrasta tale diritto ed addirittura impone, o tenta di farlo, un proprio credo religioso. Aggiunge il pretore che l’art. 32 Cost. non può essere interpretato come una Magna Charta degli aspiranti suicidi, che non può esistere un diritto al suicidio.

La teoria in parola è particolarmente suggestiva per il tema che viene trattato nella seguente tesi come lo sono tutte le altre teorie che in un qualche modo offrono appigli per trattamenti senza o contro il consenso del paziente. Perché è innegabile che per porre in essere atti di coercizione occorre operare contro il consenso del paziente. Di conseguenza si argomenta che se per il fondamento della liceità del trattamento è necessario e sufficiente l’essere autorizzati alla professione (e si tratta proprio della professione dello psichiatra che sovente lavora proprio sulla mancanza del consenso in quanto sintomo della malattia )allora saranno socialmente adeguati i mezzi coercitivi posti in essere, per tempi e con modalità finalizzate allo scopo, per vincere la resistenza del paziente.

Sui dubbi che si nutrono anche dall’opinione pubblica su questo argomento si è già detto si aggiunge soltanto che non possono essere posti nel nulla gli sforzi del legislatore(anche regionale) per richiamare l’attenzione dei medici attorno all’importanza dell’informazione in rapporto al consenso ed in questi protocolli, almeno ufficialmente, non si fanno deroghe per i pazienti psichiatrici.

5. Teoria della mancanza dell’elemento soggettivo

Questa teoria, di più antica memoria(sostenuta a suo tempo dal Carrara), in tempi più recenti è stata accolta anche da altri autori. Si ritiene che non può commettere il reato di lesioni personali dolose il chirurgo che incide la cute per operare un intervento chirurgico perché nelle sue intenzioni non c’è una finalità di ledere ma al contrario la opposta finalità di cura e di benessere al paziente. L’intervento chirurgico non tende a ledere ma a migliorare le condizioni di salute o a salvare la vita. Gli elementi di critica a tale teoria sono tutti interni alla teoria dell’elemento soggettivo del reato onde si osserva con il Riz nell’opera ripetutamente citata in nota " Va osservato che per l’applicabilità della norma giuridica non si richiede un animus malvagio, ma la coscienza e volontà del fatto(art. 43 c.p.). Tale osservazione appare a dire il vero insormontabile e già da sola basterebbe a togliere argomenti ai sostenitori della liceità degli atti coercitivi in psichiatria che pure possono essere allettati da tale impostazione teorica. Ciò perché indubbiamente lo psichiatra, di regola, non è animato da propositi distruttivi nei confronti del suo paziente, anzi al contrario.

Per concludere anche per questa teoria rimane da affrontare il problema del consenso che, se nella sua impostazione pura e più risalente, può anche essere non necessario, nelle impostazioni più recenti, invece, ne è stata recuperata la necessità; posto che l’intervento senza il consenso dell’avente diritto integra il reato di violenza privata. Lasciamo la parola all’Altavilla:" La mancanza del consenso non potrebbero dare vita ad una imputazione di lesione volontaria…., ma non per questo si potrebbe parlare di condotta lecita, sussistendo un delitto contro la libertà individuale".

6. Teoria dell’assenza della tipicità del fatto di reato

Gli Autori di questa teoria intendono, parimenti ai sostenitori della teoria dell’azione socialmente adeguata risolvere il problema del fondamento della liceità dei trattamenti sanitari non già passando per il luogo dell’antigiuridicità ma per quello della tipicità. Differenziazioni teoriche interne si hanno in ordine all’esito dell’intervento che, purché eseguito lege artis , può essere fausto od infausto. Secondo alcuni, per tutti si ricorda l’Antolisei e l’Introna, è atipico solo il trattamento sanitario eseguito secondo i canoni della scienza medica e che abbia avuto esito positivo; in quando solo così non può dirsi che vi sia stato quel peggioramento della salute che può definirsi "malattia nel corpo o nella mente" richiesto dall’art.582 per integrare il reato di lesioni personali.

Osserva il Manna che tutto l’equivoco sorge dall’annosa questione del concetto di "malattia", fatto proprio dal legislatore nell’art.582 c.p.; qui viene considerata malattia qualsiasi alterazione, anche solo anatomica, del corpo o della mente e (non già, come vuole la scienza medica ufficiale, un processo patologico che determina una anomalia funzionale dell’organismo). Diversamente ragionando si arriverebbe ad una interpretazione abrogante del reato di percosse per cui le semplici ecchimosi verrebbero considerate malattia rimanendo ben poco al reato medesimo(tipo una semplice vasodilatazione cutanea).

Se quindi consideriamo la malattia un "processo" patologico che determina una menomazione funzionale si deve ritenere che quando opera il medico di regola interviene su di un processo già in corso.. cioè a malattia in atto. Ciò posto difficilmente può dirsi che il medico è stato causa di quella malattia che sta curando; proprio perché essa al momento del suo intervento era già insorta.

Se allora egli ha agito lege artis e l’esito è fausto nulla può a lui imputarsi( non c’è danno se l’esito è fausto); se invece l’esito è infausto valgono le considerazioni appena fatte. Cioè a dire l’opera del medico non può essere eziologicamente collegata alle lesioni derivate dall’intervento. Anche a voler applicare la regola dell’eliminazione mentale non si può dire che eliminando il trattamento sanitario non vi sarebbe stata la malattia… che invece c’era prima e per eliminarla il medico si è attivato. Si osserva che è sbagliato distinguere tra esito fausto ed esito infausto perché esso è un elemento esterno alla fattispecie del reato e il risultato dell’intervento dipende sempre da elementi non del tutto controllabili dal chirurgo. Far perciò dipendere la punibilità di una persona da un evento esterno al fatto tipo preso in se non è corretto. Inoltre per la integrazione del reato di lesioni non è richiesta la finalità degli atti basta che si sia verificato l’evento lesioni. Ancora c’è da osservare che l’intervento sanitario non investe solo la sfera dell’integrità fisica ma più propriamente attiene alla libertà di autodeterminazione e quindi è in quel luogo che va ricercata la liceità del trattamento sanitario.. in altre parole visto che anche per gli assertori della teoria dell’assenza del fatto tipo è comunque richiesto il consenso per la liceità del consenso è d’uopo riportare quest’ultimo dal luogo dell’assenza della tipicità a quello dell’antigiuridicità.

Tutto questo alla condizione che il professionista abbia agito secondo le regole dell’arte. Se ciò è avvenuto nulla può essere mosso al medico.

Ma agire lege artis vuol dire anche procurarsi il consenso di chi ne ha diritto per cui è illecito o arbitrario il trattamento eseguito senza consenso.

Per ciò che attiene all’uso della coercizione nell’assistenza psichiatrica deve osservarsi che in quest’ambito raramente il reato in questione è quello di lesioni personali ma quello di violenza privata (art. 610 del c.p.); per qui le argomentazioni attorno al concetto di malattia non possono aiutarci molto valgono invece quelle attorno alla necessità del consenso.

E’ proprio qui, e cioè nel consenso che si cercherà di trovare risposta al nostro problema quando si affronteranno le teorie che fanno ricorso alle scriminanti codificate per trovare fondamento alla liceità dei trattamenti.

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Capitolo III
Le cause di giustificazione codificate

1. Le scriminanti codificate

La maggioranza della dottrina e della giurisprudenza ritiene di fondare la liceità del trattamento sanitario su una o più cause di giustificazione codificate da sole o in varia combinazione fra loro. Le varie teorie si possono raggruppare attorno a due nuclei fondamentali; quello che ritiene necessario il consenso (quando manca si ricorre allo stato di necessità); l’altro ruota attorno alla dialettica dell’esercizio di un diritto a fronte dell’adempimento di un dovere. Non si ritiene utilizzabile, nonostante opinioni contrarie, nel campo sanitario la scriminante della legittima difesa.

Nei paragrafi che seguiranno si dovrà dire dei trattamenti giustificati dal consenso con tutte le problematiche connesse ad esso: specie in ordine all’esatta identificazione del consenso e cioè se quello di cui all’art.50 c.p. e dei rapporti di esso con l’art. 5 c.c. nonché del significato del consenso medesimo(se cioè trattasi di atto di disposizione del proprio corpo o di autodeterminazione della propria libertà morale). Si dovrà dire dell’influenza esercitata dall’art.32 Cost. sui limiti del consenso di cui all’art.5 c.c.(da molti considerata una possibile soluzione ai paralizzanti precetti di quest’ultima norma).

Al fine della presente tesi si dirà ulteriormente dei trattamenti mancanti del consenso separatamente da quelli ove vi è dissenso. Diffusamente si dovrà dire ancora dei trattamenti giustificati dall’adempimento di un dovere, della posizione di garanzia, dei reati omissivi impropri, o commissivi mediante omissione della connessa tematica del diritto a rifiutare le cure e del diritto a lasciarsi morire.

Dovrà anche dirsi dei pericoli connessi alla applicazione della teoria che pretende di intervenire senza il consenso dell’avente diritto salvo i casi di trattamenti non terapeutici per i quali è invece richiesto il consenso. Pericoli tutti connessi ovviamente ad una pericolosa relazione medico-paziente improntata a forme di autoritarismo assolutamente inaccettabili in una società a Costituzione ancorata al principio personalistico e al rispetto dei diritti inviolabili della persona.

Si dirà comunque della relazione necessaria dell’esercizio del diritto(ma nel caso della professione medica più propriamente, almeno nella maggior parte dei casi, facoltà) con il consenso ritenuto requisito-limite. Delle critiche e delle difficoltà applicative delle singole scriminanti si dirà nella trattazione delle singole "voci".

Ancora si cercherà di rinvenirne l’operatività internamente al problema della coercizione nel trattamento psichiatrico.

2. Il consenso dell’avente diritto

Abbiamo visto nelle pagine precedenti come si è cercato di affrontare il problema del fondamento della liceità del trattamento sanitario cercando di superare l’impostazione più risalente che ritiene, invece, di rinvenire il fondamento giuridico alla liceità del trattamento sanitario nelle cause di giustificazione codificate. Di queste adesso bisogna parlare. Prima, però, bisogna osservare come quasi nessuna delle impostazione teoriche, che si andranno ad esaminare, ritiene di poter prescindere dal consenso del paziente.

In alcuni casi, il consenso, viene considerato come requisito-limite al trattamento sanitario( di suo già lecito per essere quella del medico attività autorizzata dall’ordinamento) in altri anche quando il trattamento è esso stesso una causa di giustificazione il consenso è parimenti necessario…

Il consenso, comunque lo si veda, appare indispensabile se non a dare liceità al trattamento almeno a garantire il paziente nelle sfera della sua libertà di autodeterminazione.

Conviene adesso trattare del consenso quale causa di giustificazione di cui all’art. 50 c.p.

La giurisprudenza prevalente imposta il problema del trattamento sanitario ritenendolo fatto tipico giustificato dal consenso dell’avente diritto con i limiti di cui all’art. 5 c.c.; che in tal modo viene ritenuto operante in ambito penale.

Se non vi è consenso vale il ricorso allo stato di necessità salvo che non si operi nell’applicazione di una legge che impone il trattamento sanitario ex art. 32 Cost.( per ciò che ci riguarda artt. 34-35 L. 833 del 23/12/78).

Si opera quindi nel luogo dell’antigiuridicità per cui il fatto di lesioni(ma a seconda dei casi anche di violenza privata) personali è scriminato solo dal consenso dell’avente diritto validamente manifestato e ciò anche in caso di trattamento ad esito fausto ("…il reato di lesioni sussiste anche laddove il trattamento non consentito abbia uno scopo terapeutico e l’esito sia positivo sul piano clinico…)

Bisogna ora cercare di affrontare il problema della qualificazione del consenso. E cioè se debba esso intendersi quale consenso dell’avente diritto con il limiti operativi di cui all’art. 5 del c.c. o diversamente quale manifestazione della libera autodeterminazione di se di cui agli art. 13 e 32 della Costituzione.

Il problema non è solo teorico la soluzione consente di superare le obiezioni di quanti ritengono il consenso dell’avente diritto(per il vero assieme allo stato di necessità) pressoché inoperante per quanto riguarda la maggior parte degli interventi chirurgici.

Se infatti il consenso dell’avente diritto, in quanto scriminante, rende lecito un fatto tipico a livello materiale ciò non avviene senza limiti; i limiti sono quelli contenuti nell’art. 5 del c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando "cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume". Come si vede sarebbero vietati gli atti di disposizione quando cagionano una diminuzione permanente del proprio corpo; quindi quando il chirurgo interviene per rimuovere un organo malato( cancrena di un arto per esempio) il consenso sarebbe invalido e di conseguenza venendo meno l’elemento scriminante la lesione chirurgica illecita; per cui il reato di lesioni volontarie.

In dottrina si è cercato in vari modi di superare il problema: oltre a quelli già visti di ricercare altrove la causa di giustificazione, la dialettica è stata fra quanti ritengono con varie argomentazioni inoperante in ambito penale l’art.5 c.c., e quanti ritengono limitati tacitamente i divieti contenuti nella norma in questione e quanti ancora, più di recente, li ritengono arginati dalle norme contenute nell’art.32 della Costituzione.

Secondo i primi si ritiene che per rendere operante in ambito penale l’art. 5 del c.c. occorre un esplicito intervento del legislatore e che il consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p. altro non è che una manifestazione della rinuncia alla tutela di un interesse penalmente protetto..

Rispetto alla limitazione dell’operatività dell’art. 5 c.c. per via dell’esistenza di limiti-taciti si sostiene che i divieti in esso contenuti non operano quando il consenso viene dato per interventi chirurgici in quanto attività conformi a consuetudine con la precisazione che la consuetudine non serve a rendere lecito il fatto tipico ma ha efficacia in ordine alla disponibilità del bene da parte di è chiamato a consentire. Conferma di ciò si può leggere nella relazione ai lavori preparatori all’art.5 c.c. ove la ratio della norma viene rinvenuta nella necessità di evitare l’espianto di organi atti al trapianto e mai si fa cenno ad ordinari interventi chirurgici.

Contro tale opinione osserva il Manna che se anche la consuetudine, come lo stesso Riz riconosce, non serve a togliere tipicità a fatti di reato, non è sufficiente a superare dei limiti imposti dalla legge…e ne è prova la legge sui trapianti che per consentirli ha dovuto normare appunto nella forma di legge.

L’ultima teoria sviluppatasi in ambito di studiosi di diritto costituzionale(della quale si dirà diffusamente in apposito capitolo) osserva che se si dovesse applicare formalmente il dettato dell’art.5 c.c. si arriverebbe ad un risultato abrogante dell’art. 32 della Cost. che tutela il diritto alla salute che è cosa diversa e più ampia di quello della integrità fisica.

Se infatti "La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale(e non assenza di malattia)" e se l’art. 32 1° comma della Cost. tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività non si capisce come potrebbe una norma di rango inferiore, com’è quella contenuta nel codice civile all’art. 5, disapplicarla. Ciò perché applicando l’art. 5 del c.c., con i suoi divieti a tutela dell’integrità fisica, si arriverebbe all’assurdo di dover rinunciare ad un intervento chirurgico demolitivo ma necessario a salvare la vita(amputazione di una gamba in cancrena) o a migliorare la salute.

Da qui la considerazione che il fondamento del consenso al trattamento sanitario in quanto momento della libera espressione della libertà personale origina direttamente dagli artt. 13 e 32 della Cost. Prestando il proprio consenso al trattamento il paziente non rinuncia ad un proprio interesse protetto ma fa uso della libertà di decidere da de per ciò che riguarda il proprio corpo, ed il medico non viola la libertà del paziente ma la attua.

I requisiti del consenso

Comunque lo si interpreti il consenso è perlomeno necessario alla liceità del trattamento sanitario: serva esso a scriminare o sia espressione dell’autodeterminazione di se. In alcune situazioni, tuttavia, esso non è sufficiente; specie se si considerano validi i limiti di cui all’art. 5 c.c..

Ad ogni modo, salvo rare eccezioni, vi è concordia nel ritenere imprescindibile il ricorso al consenso dell’avente diritto.

La riflessione a questo punto si sposta sui requisiti del consenso, e cioè: chi può prestarlo; quale forma; attualità, revocabilità; le informazioni sul consenso.

Il consenso prestato dall’avente diritto.

E ‘ chiamato a dare il consenso alla prestazione sanitaria, trattandosi in ogni caso di beni personalissimi, solamente il titolare del beni medesimi: siano essi la salute, l’integrità del corpo o la libertà di autodeterminazione.

Problemi sorgono soltanto in situazioni nelle quali non vi è capacità di agire, sia essa naturale o legale.

Non vi è in dottrina concordia attorno alla questione della minore età; vi è infatti chi, come il Riz, ritiene che per validamente consentire al trattamento sia sufficiente avere raggiunto l’età di 14 anni, chi ritiene invece necessaria la maggiore età chi, ancora, ritiene invece indispensabile andare di volta in volta alla ricerca della capacità naturale.

Differenti sono le soluzioni proposte dalla dottrina, anche rispetto ad un orientamento generale della giurisprudenza, per i casi di incapacità a prestare valido consenso.

In effetti le soluzioni variano a seconda che ci si trovi di fronte ad un minore con genitori rispetto a chi è senza o con genitori non in grado di esercitare la potestà genitoriale; situazione quest’ultima pressoché sovrapponibile a quella dell’interdetto legale( sia reperibile o meno il tutore) rispetto all’incapace naturale.

Problemi maggiori si pongono per le situazioni di incapacità naturale di persona adulta. Qui il campo le decisioni giurisprudenziali riguarda o il ricorso allo stato di necessità (con i limiti applicativi all’attività medica già visti), o concetti metagiuridici come il ricorso al principio di beneficialità contrapposto a quello di autonomia.

Di tutto questo, per la rilevanza che ha per il problema in tesi, si parlerà in apposito capitolo. 

Il problema della forma

Essendo, com’è noto, il trattamento sanitario, non codificato in ordine ai presupposti, non vi sono nell’ordinamento chiare regole di riferimento per quanto riguarda la forma del consenso.

Si ritiene, tuttavia, in piena concordia di vedute sia in dottrina che in giurisprudenza, di potersi affidare alla piena libertà di forme ove non diversamente disposto dal legislatore. Per il Riz, che come abbiamo visto segue la teoria del trattamento sanitario penalmente scriminato dal consenso di cui all’art. 50 c.p., il consenso ha una sua esistenza oggettiva e quindi vale anche se il medico ne ignora l’esistenza come del resto è per tutte le altre scriminanti ( art. 59 c.p.).

Diverso è il problema del consenso putativo; qui si è nella situazione del medico che ritiene esistente un consenso che in realtà manca. Ma, come sappiamo, occorre che il medico versi in errore non determinato da colpa per andare indenne da responsabilità penale; altrimenti risponderà del delitto a titolo di colpa ove previsto dal legislatore(art 59 c.p. ultimo comma).

Ancora diversa è la situazione del cosiddetto consenso presunto; qui si sa bene che il consenso manca ma attraverso un processo mentale a partire dalla situazione nota qual è quella di pericolo grave per la salute passando per valutazioni del tipo tutela del paziente si inferisce qual è il suo interesse sostituendosi così completamente a lui.

Si può obiettare con il Manna che se il consenso presunto è una specie del consenso dell’avente diritto non vi è nessuna ragione per discostarsi dai limiti e dall’operatività di esso e sarebbe perlomeno inopportuno concedere al consenso presunto( che quindi si sa non esserci) più di quanto non sia stato concesso al consenso reale. Sembrerebbe, proseguendo con l’autore in parola, il consenso presunto un surrogato dello stato di necessità che anziché operare sul piano dell’interesse equivalente o prevalente opera sul piano della mancanza di interesse; cioè sulla rinuncia alla tutela del bene protetto dalla norma penale.

Si avverte il pericolo di operare presunzioni su temi di così delicata importanza.

Si può concludere rilevando come tutti i casi nei quali si può invocare il cosiddetto consenso presunto potrebbero essere ricondotti alla scriminante dello stato di necessità e quindi è più confacente riferirsi ad essa che per altro è almeno codificata.

Per riprendere il problema della forma c’è ancora da dire che negli ultimi anni ha preso sempre più piede una relazione medico-paziente più rispettosa dei diritti di quest’ultimo tanto da parlare di nuovo vincolo sociale al punto da potersi ritenere superato il problema della scriminante e quindi il consenso alla prestazione medica non è quello che scrimina ma quell'altro che permette alla persona di esercitare un proprio diritto alla salute.

Da qui la sempre maggiore attenzione al problema del consenso informato visto anche come diritto dell’utente(della prestazione sanitaria) a formarsi un convincimento quanto più possibile consapevole alla determinazione al trattamento.

Ora, come si vedrà più avanti, anche se il legislatore nazionale non ha ancora prescritto norme in merito, ai più appare almeno improntato a cautela il comportamento volto alla ricerca della forma scritta per il consenso informato.

Attualità e revocabilità del consenso

Si ritiene comunemente che il consenso debba essere prestato prima del trattamento e mantenuto per tutta la sua durata e può essere revocato in ogni momento.

Problemi sorgono per quanto riguarda la dimensione del consenso; e cioè se debba essere prestato nella sua integrità inizialmente o se debba essere rinnovato per ogni deviazione dal trattamento sanitario preventivamente concordato.

In altre parole: nel corso di un intervento, per esempio, di asportazione di un nodulo al seno, è consentito al chirurgo, che si avveda(più o meno colposamente rispetto alla diagnosi fatta in precedenza) di una maggiore gravità della situazione, asportare il seno senza chiedere il consenso della paziente che al momento è incapace perché narcotizzata?

Nel caso prospettato la risposta, negativa, è piuttosto agevole, anche alla luce del più recente orientamento della giurisprudenza(già citato "caso Massimo").

Ma serviva a chiarire il concetto di attualità e di dimensione del consenso: e ciò perché se la paziente, mediante consenso informato, avesse preventivamente(cioè prima di cadere in stato di narcosi) prestato consenso anche rispetto a eventuali deviazioni dal programma operatorio non ci sarebbero stati problemi.

Ove, invece, la paziente avesse consentito solo all’intervento di asportazione del nodulo, il trattamento in deviazione da quello programmato per essere lecito dovrebbe almeno essere giustificato dallo stato di necessità (art. 54 c.p.) o da una legge che lo imponga.

Nessun problema per tutti i casi ove il paziente revoca validamente il consenso precedente prestato; ciò perché nessuno pensa che quella fra medico e paziente sia una relazione contrattuale tale da consentire al medico di ricorrere al giudice per un adempimento in forma specifica rispetto al paziente che non adempie; meno che mai è consentito al medico di farsi giustizia da se imponendo il trattamento coattivamente. Può residuare un problema di risarcimento dei danni, ex art.1337 c.c., in termini di responsabilità precontrattuale; il chirurgo che ha predisposto l’occorrente per l’intervento operatorio poi saltato a causa del rifiuto dell’ultima ora da parte del paziente può chiedere al giudice di essere risarcito.

Connessa all’attualità del consenso è la tematica del Living Will o testamento biologico o di vita.

Si tratta di un consenso, sovente ma non necessariamente, in forma scritta con il quale l’avente diritto dispone per trattamenti sanitari da subire nel caso, futuro, che non sarà più in grado di consentire validamente. Nel testamento di vita può disporre il tipo di trattamento sanitario consentito o rifiutato (living will), oppure può indicare una persona alla quale affidare il compito di decidere per lui come farebbe un procuratore legale( appointement of health care proxies).

E’ abbastanza evidente che decidendo per il futuro i testamenti di vita contraddicono al principio dell’attualità e della revocabilità del consenso quindi essi, se pure hanno cittadinanza giuridica nei paesi di common law, non hanno vigenza nell’ordinamento giuridico italiano.

Tuttavia casi del genere si presentano abbastanza di frequente alla pratica clinica quotidiana; mi riferisco al rifiuto di trasfusioni ematiche da parte di pazienti che vi si oppongono per ragioni religiose(vedi testimoni di Geova) o al rifiuto dell’alimentazione per ragioni politiche.

Più frequente è il caso dei testimoni di Geova che portano addosso una medaglietta o uno scritto nel quale sono contenute istruzioni per il medico per il caso in cui non saranno capaci di fornire valido consenso.

Del rifiuto di cure opposto "attualmente" come diritto a non curarsi o a lasciarsi morire si parlerà oltre.

Qui rileva il fatto di appurare se un dissenso espresso precedentemente rispetto ad una situazione di salute, ipoteticamente rappresentatasi come futuribile, possa avere validità in una situazione di attualità di pericolo (non tale però da integrare gli estremi dello stato di necessità ex art. 54 c.p.) e di incapacità naturale a consentire.

Si distinguono allo scopo in dottrina due situazioni tipo:

a)il paziente giunge all’osservazione del medico già in condizioni di incoscienza e senza che fra i due sia intercorsa nessuna precedente relazione;

b)il paziente arriva allo stato di incoscienza dopo avere espresso dissenso rispetto ad una certa pratica medica quindi con una precedente relazione fra medico e paziente.

Rispetto alla prima situazione si può dire che il principio dell’attualità del consenso opera con tutta la sua massima espansione. Al più il medico potrà servirsi dell’eventuale living will o della testimonianza dei parenti(che nel caso assume il peso di un "living") per meglio valutare in ordine alla scelta fra due o più terapie parimenti praticabili ma dovrà per il resto non tener conto del dissenso espresso nel living ed invece applicare il principio dello stato di necessità e dell’adempimento di un dovere.

Per ciò che attiene la seconda situazione essendo che il paziente ha già avuto modo di esprimersi circa un evento prevedibile come sviluppo della situazione patologica in atto è difficile negare che si è di fronte ad una libera autodeterminazione. Tale decisione viene poi presa in condizioni di capacità di intendere e di volere con la consapevolezza di dover fronteggiare di li a poco una certa situazione pericolo grave per la salute o la vita( vedi il solito caso del testimone di Geova che in previsione di un intervento chirurgico prescrive al medico di astenersi di praticargli una trasfusione ematica nel prevedibile caso di bisogno); non può quindi dirsi che il paziente non si è rappresentato il rischio. Attendere perciò il peggioramento dello stato di salute e il conseguente escamotage del sopravvenuto stato di incoscienza (con la ritenuta invalidità del precedente dissenso) e l’applicazione dello stato di necessità pare essere un atteggiamento paternalistico e poco rispettoso dei diritti fondamentali della persona.

D’altro canto anche se paternalistico non può negarsi il fine nobile ed altrettanto degno di rispetto di salvaguardia della vita; e a dar fiato a questa impostazione "paternalistica" può essere la considerazione che non può sicuramente dirsi che un dissenso espresso in piena salute e lontano da un prospettato trattamento sia meditato come uno espresso a ridosso dell’intervento. D’altro canto è noto a tutti come nelle ricerche sui tentativi di suicidio(e non si vuole qui confondere il suicidio con il diritto a rifiutare le cure o a lasciarsi morire) è dato certo che a distanza di tempo il proposito autosoppressivo viene rivisto a favore di un più ponderato principio di sopravvivenza.

Conclusivamente si può dire che la regola dell’attualità del consenso è da ritenersi valida come lo deve essere quella sull’attualità del dissenso senza però le rigidità, figlie di un formalismo spinto, che portano a considerare priva di significato la determinazione (positiva o negativa) espressa appena prima dell’inizio del trattamento.

Le informazioni sul consenso

Bisogna qui porsi il problema di quale contenuto debba avere il consenso al trattamento, anche alla luce del fatto che il trattamento sanitario, come abbiamo già visto, è un entità complessa e variabile sia dottrina che in giurisprudenza. Ed infatti il trattamento sanitario contempla atti, persone chiamate a porli in essere, metodologie, evento.

Detto ciò, e posto che il consenso si compone di elementi afferenti alla volizione ed elementi alla coscienza, si può dire perché possa dirsi dato validamente il proprio consenso il paziente deve rappresentarsi tanto il trattamento quanto il risultato dello stesso e volere la propria condotta( cioè la rinuncia alla tutela dell’interesse tutelato dalla norma penale).

Da qui di può partire per vedere di riempire di contenuti la quantità di informazioni che il sanitario deve fornire al paziente affinché quest’ultimo possa ben rappresentarsi ciò su cui forma il consenso. Naturalmente la volontà rispetto al consenso deve formarsi libera da vizi quali violenza, dolo, errore e non deve essere contraria all’ordine pubblico o al buon costume.

Le informazioni principali naturalmente vertono soprattutto sul tipo di trattamento e sugli esiti prevedibili dello stesso; si fa questione se l’informazione debba concernere o meno anche i prevedibili esiti atipici. Ritiene il Riz che sarebbe un eccesso gravare il medico anche dell’informazione rispetto agli esiti atipici dell’intervento che potrebbero(poiché spesso infausti) spaventare il paziente e determinarlo negativamente rispetto all’intervento. E’ anche discusso se l’informazione sulla diagnosi debba essere fornita.

Tuttavia è pacifico che il medico debba fornire tutte le informazioni che il paziente specificatamente chiede pena il pericolo di incorrere in responsabilità colposa per negligenza, se non addirittura responsabilità per dolo, in quanto il consenso venutosi a creare viziato da un elemento mancante sarebbe invalido. Rimane in ogni caso pacifico che non può esservi trattamento sanitario lecito in assenza di consenso salvo il sussistere dello stato di necessità o di una legge(per il dettato dell’art. 32 Cost.) che imponga il trattamento. Ed il consenso senza le informazioni necessarie al paziente per rappresentarsi compiutamente la situazione sulla quale è chiamato a decidere è invalido.

La definizione dell’area coperta dalle informazioni del medico appena data non è per niente pacifica specie per il riferimento allo standard soggettivo del paziente chiamato a decidere; di questo si dirà nel paragrafo destinato al "consenso informato" che, come vedremo, è cosa diversa dalle informazioni per il consenso. Qui, si anticipa solo che, in armonia con il nuovo corso del rapporto medico-paziente il nuovo codice di deontologia medica del 1998 all’art 30 prevede un contenuto ampio dell’oggetto delle informazioni relative al trattamento sanitario.

E’ necessario a questo punto passare a parlare dell’operatività del consenso quale scriminante codificata in tutte le situazioni ove manca (per tutte le ragioni che verranno esposte) o vi è dissenso al trattamento. Qui la dottrina che condivide la teoria del consenso quale causa scriminante e la quasi totalità della giurisprudenza ritiene necessario il ricorso allo stato di necessità(salvo come già detto non si sia in esecuzione di un t.s.o.) ed è per questo che se ne parlerà congiuntamente.

3. Lo stato di necessità

Quella del paziente incapace di consentire è una situazione di mancanza di consenso che la dottrina ha risolto in vario modo ma prevalentemente attraverso il ricorso allo stato di necessità a al consenso presunto(scriminanti non codificate e teoria dell’azione socialmente adeguata a parte). Il ricorso a giustificazioni rispetto ad interventi in mancanza di consenso misura la difficoltà di prescindere da una dimensione del trattamento sanitario come momento di autodeterminazione del paziente.

Questa preoccupazione di far salvo il principio dell’autonomia in effetti, almeno prima facies, sembra essere maggiormente presente nei sostenitori della teoria del consenso presunto. Infatti fra gli elementi utili da prendere in considerazione per giungere alla determinazione del consenso presunto il medico deve tenere conto della condotta del paziente precedente all’intervento(ovviamente ove nota) e decidere in maniera "ragionevolmente" conforme allo standard del paziente stesso; se non sono noti comportamenti precedenti del paziente si può scegliere in modo da non risultare le scelte del tutto dissennate rispetto ad uno standard di scelte ragionevoli.

La regola del consenso presunto viene respinta, con motivazioni diverse, dalla maggior parte della più qualificata dottrina( Riz, Manna..). Per il Manna sarebbe un inutile doppione dello stato di necessità; per il Riz a fronte di decisioni così importanti se è concesso al paziente superare i limiti di cui all’art. 5 c.c. con il ricorso alla consuetudine in quanto limite tacito alla norma non così può essere per il medico che deve attenersi al consenso reale del paziente e in mancanza di esso allo stato di necessità o all’adempimento del dettato di una legge.

Quindi per il caso di paziente incapace di consentire vale per la maggior parte della dottrina e per la giurisprudenza il ricorso allo stato di necessità di cui all’art.54 del c.p. anche se non mancano obiezioni a quest’ultimo orientamento.

Il tema in tesi consente di trattare prevalentemente del caso del paziente maggiore di età incapace di consentire lasciando pochi cenni al caso del minore di età con e senza genitori in grado di esercitare la potestà relativa.

Il caso del paziente incapace di consentire copre situazione diverse fra loro; si va dal caso del paziente originariamente incapace e che tale si mantiene al momento del trattamento, al paziente capace che transitoriamente lo diviene sia perché in narcosi operatoria o per una compromissione della capacità di autodeterminarsi.

Tuttavia in entrambi i casi elemento accomunante per l’applicazione della scriminante in parola è la situazione oggettiva che deve essere tale da ricorrere un pericolo attuale grave per la salute o per la vita.

Può rilevare la transitorietà della situazione di incapacità per valutare il grado di urgenza della situazione di malattia e per stabilire se è possibile attendere il recupero delle capacità del paziente e quindi rinviare l’intervento a quel momento.

Se ancora, per tornare al paziente psichiatrico, la situazione di incapacità può essere stata determinata dal comportamento del medico ed essa stessa influisce sulla situazione di pericolo ecco che la scriminante non potrà essere invocata per il dettato dello stesso art. 54 c.p. che richiede appunto che il pericolo non deve essere stato determinato da chi invoca l’applicazione della scriminante stessa. Naturalmente il ricorso allo stato di necessità richiede l’esistenza di tutti i requisiti previsti dalla legge: l’attualità del pericolo e assenza di contributi nella causazione del pericolo; l’altrimenti evitabilità del pericolo; equivalenza(o prevalenza) del bene salvato rispetto a quello sacrificato. 

Attualità del pericolo e assenza di contributi nella causazione dell’evento di pericolo.

E noto come tutti avvertono che lo stato di necessità se interpretato con "larghezza" di vedute può dar luogo a preoccupanti violazioni dei diritti personalissimi della persona specie in un campo come quello dei trattamenti sanitari e a soluzioni aberranti come ancora ai nostri giorni da taluni venga interpretato in maniera da lasciare mano libera al medico per proteggersi da pericolosi ricorsi giudiziari.

Per questo e vista la sfera degli interessi che viene a toccare lo stato di necessità viene dalla giurisprudenza applicato in maniera piuttosto rigida; proprio a garanzia del diritto all’autodeterminazione della persona. Esempio di questo orientamento è il cosiddetto "caso Massimo" ove l’attualità del pericolo è stata interpretata in modo rigidissimo; negata appunto in pieno corso operatorio di un intervento di asportazione transanale ove il chirurgo decise senza interpellare la paziente(narcotizzata) di modificare la modalità dell’esecuzione dell’intervento che esitò poi nell’amputazione del retto con successiva colostomia.

Quello dell’attualità del pericolo è invero il problema centrale nell’applicazione dello stato di necessità in medicina. Tanto che se venisse applicato astrattamente verrebbe a escludere tutti gli interventi di medicina preventiva e diagnostici effettuati in condizioni di carenza di consenso in situazioni critiche. Ma, come osserva il Riz, anche la medicina preventiva e la diagnosi hanno finalità di salvare la persona da un pericolo alla persona. Già ma quanto "attuale"? Lo stesso Autore osserva che tutti gli elementi valutativi del pericolo devono sussistere al momento della valutazione che così risulta essere fatta "ex ante".

Deve trattarsi della rilevante possibilità del verificarsi dell’evento. Nello stesso senso la Corte di Firenze nella famosa sentenza Ingiulla in maniera articolata distingue fra interventi urgenti nel senso della assoluta improrogabilità pena il rischio per la vita; necessari prorogabili solo per pochissimo tempo…ma la omissione comporta pericoli per la vita, di elezione non necessari né urgenti ma solo migliorativi delle condizioni di salute del paziente. Solo per gli interventi urgenti e necessari la Corte, con giurisprudenza sostanzialmente mantenuta attualmente, ritiene applicabile la scriminante dello stato di necessità.

Se è vero che, già come abbiamo visto per il requisito dell’attualità del pericolo, la scriminante in parola offre spazi di manovra strettissimi c’è da dire che essa stessa a ben vedere può risultare oltre che a garanzia dei diritti all’autodeterminazione della persona senz’altro fonte di maggiori certezze per il medico che così sa che dovrà astenersi dall’operare in presenza di situazioni non urgenti, né necessarie, in mancanza del consenso.

Posto che il fattore tempo non gioca negativamente( intervento d’elezione o preventivo) potrà aspettare il prevedibile recupero delle capacità di assentire validamente o al più la nomina di un rappresentante.

E’ noto come per l’applicazione dello stato di necessità si richieda che il pericolo non deve essere stato volontariamente causato dallo stesso agente; ed è altrettanto noto come la norma dello stato di necessità non è stata pensata con la mente rivolta ai trattamenti sanitari altrimenti non si spiegherebbe, come già osservava il Vassalli perché sarebbe negata al medico la stessa possibilità di rimediare ad un suo eventuale errore

Tale atteggiamento della giurisprudenza si può spiegare anche con il timore che altrimenti sarebbe lasciato spazio al sanitario per determinare da se stesso le situazioni di pericolo rispetto alle quali aprirsi cosi la strada ad interventi senza il consenso del paziente.

Questo aspetto della volontaria o colposa causazione dell’evento pericolo che si è chiamati a fronteggiare attraverso il ricorso allo stato di necessità sarà ripreso quando si parlerà dei problemi applicativi della scriminante in parola in ambito psichiatrico; basti solo anticipare che non di rado le situazioni che in psichiatria assurgono ad urgenza hanno chiari segni prodromici che se valutati per tempo possono portare ad escludere la situazione di urgenza. E perciò se colposamente ignorati escludono la sussistenza dello stato di necessità successivamente venutosi a determinare.

Tale può, ad esempio, essere il caso dell’etilista cronico con segni di pre-delirium tremens che senza appropriate cure esita nel delirium tremens conclamato e poi a causa del suo comportamento oggettivamente etero-auto lesivo "necessita" nell’immediatezza di essere contenuto con mezzi meccanici e costretto a subire il trattamento, come anche capita, nelle more delle procedure di un t.s.o.

L’altrimenti evitabilità del pericolo

La soluzione che viene posta in essere e che così sacrifica il bene protetto dalla norma, deve essere deve essere l’unica e proprio quella in grado di fronteggiare il pericolo.

Con questa regola si vuole stringere ulteriormente il campo di operatività della norma che non dimentichiamolo può sacrificare beni di pari o inferiore valore rispetto a quelli salvati.

I margini di operatività della libera scelta del medico del mezzo di cura si stringono fin quasi ad annullarsi rispetto alla situazione del trattamento sanitario assistito dal consenso; se nel caso di intervento chirurgico programmato si può optare per una tipologia di intervento anziché per un altro concordando con il paziente la scelta in caso di urgenza o necessità l’intervento "scelto" dal medico se demolitorio e poteva alternativamente essere scelto un altro non demolitorio non vale a scriminare dal reato di lesioni personali volontarie. Ora tale principio, portato alle sue estreme conseguenze, può avere effetti paralizzanti: posto che per un problema medico-chirurgico vi sono sempre più alternative terapeutiche facendo così cadere l’operatività della scriminante. Questo senz’altro è vero ma non può trascurarsi il fatto che lo stato di necessità opera in assenza del consenso dell’avente diritto e quindi all’interno di una situazione di sacrificio del bene libertà e integrità fisica; non si vede perché non debba richiedere al soccorritore di intervenire limitando al massimo i danni. A ben vedere lo stato di necessità tende escludere pericolosi spazi di libertà in capo all’agente contro le condizioni di inferiorità da parte di chi subisce il sacrificio.

Anche per l’altrimenti evitabilità dovrà dirsi qualcosa di peculiare per il trattamento sanitario psichiatrico essendo noto che la gamma degli interventi psichiatrici è ben più ampia e variegata di quella della medicina comune e parecchia letteratura è stata già prodotta specie per il problema delle emergenze a fronte dell’aggressività del paziente.

La situazione di emergenza psichiatrica raramente viene considerata una via senza uscita e contempla una certa gradualità di situazioni ove sono ancora possibili soluzioni non invalidanti rispetto alla libertà del paziente incapace di consentire; la possibilità di fare altrimenti, in ambito psichiatrico, raramente manca.

L’equivalenza (o prevalenza) dell’interesse salvato rispetto a quello sacrificato

Come per altre scriminanti anche per quella sullo stato di necessità occorre fare un bilanciamento degli interessi in gioco. L’interesse sacrificato deve essere pari o inferiore a quello salvato.

Nei trattamenti sanitari sembra essere in gioco il bene vita rispetto al bene libertà che verrebbe sacrificato nel caso di intervento senza il consenso dell’avente diritto. E’ necessario che non vi sia sproporzione di mezzi impiegati rispetto al pericolo attuale da scongiurare; si risponde altrimenti. (55 c.p.) dell’eccesso colposo nella commissione del fatto scriminante. Sembra quasi una questione più etica che giuridica stabilire se è prevalente il bene salute(o vita) rispetto al bene libertà; tuttavia la giurisprudenza più recente sembra timidamente orientarsi per la prevalenza del bene libertà.

Trattamento sanitario e dissenso del paziente

Le situazioni nelle quali si può avere il dissenso del paziente sono molteplici ma deve potersi dire che si tratta di situazioni ove il paziente orienta la sua volontà in modo negativo rispetto al trattamento proposto dal medico o "necessario".

Salta subito all’occhio che il dissenso di una persona è cosa profondamente diversa dalla incapacità a consentire; nel dissenso si ha una manifestazione di volontà che decide in ordine alla propria salute, (vista come particolare diritto alla libera autodeterminazione), sia pure negativamente. E si ritiene che il diritto alla salute contempli anche il rifiuto delle cure fino all’estremo del cosiddetto diritto a morire. Si ritiene inoltre, a maggioranza della dottrina, che dall’artt. 2, 13 e 32 della Costituzione discenda oltre al diritto di rivendicare cure appropriate alla propria persona, come diritto alla salute, anche il rifiuto delle cure.

Il rifiuto delle cure altro non è che un momento del sovrano principio di disposizione del proprio corpo come libera scelta di se; per cui secondo una prospettiva costituzionale tale libertà di autodeterminazione consentirebbe di superare gli stessi limiti previsti dall’art. 5 c.c. quando la determinazione ha contenuto positivo ed all’opposto di rifiutare le cure per il contenuto negativo.

Dall’altro lato, anche alla luce delle norme di impronta solidaristica contenute nella nostra Costituzione ed in altre norme di legge, vi è un dovere d’intervento del medico nei confronti del paziente; dovere, si precisa, diverso da quello dell’adempimento di un eventuale contratto di prestazione professionale che ovviamente incontra i limiti contenuti ne contratto e nella legge.

Il problema sembra allora essere quello di capire fin dove può estendersi il diritto di rifiutare le cure e di vedere fin dove si può estendere il diritto-dovere di intervento del medico.

Detto che quasi nessuno in dottrina nega l’esistenza di un diritto a rifiutare le cure e che simmetricamente si respinge l’idea dell’esistenza di un dovere di curarsi il problema si pone per ciò che riguarda l’esistenza o meno del cosiddetto diritto a morire non accolto da tutti gli autori.

Di quest’ultimo problema si dovrà parlare successivamente in apposito capitolo qui si anticipa soltanto che se respinto tale diritto(inteso come lasciarsi morire e non come rivendicazione di farsi dare da altri la morte) occorre vedere in questa sede se e come il medico può intervenire a fronte di un valido dissenso.

Si e infatti parlato poc’anzi di diritto-dovere del medico di intervenire perché qui le opzioni in campo sono più d’una. E posto che lo stato di necessità introduce il concetto della facoltà di intervento è da vedere come e quando il medico ha il "dovere" di intervento vincendo il dissenso del paziente che validamente dispone di se.

Per il dovere d’intervento generalmente si ritiene valida l’operatività dell’articolo 593 0 328 del c.p.( ove v’è un dovere d’ufficio). Per ciò che riguarda l’art. 593 c.p., chiunque "trovi" una persona ferita o in pericolo ha l’obbligo di prestare l’assistenza necessaria ( consideriamo che si tratta di un operatore sanitario) e per l’art. 328 c.p. l’obbligo di mettere in atto il proprio dovere d’ufficio di prestare le cure agli ammalati scatta in presenza di un rapporto, di lavoro o di altro genere, con la P.A.

In situazioni del genere essendo il medico tenuto ad intervenire per dovere, d’ufficio o generico, ben potrebbe, si ritiene, egli vincere la resistenza del paziente dissenziente almeno fintantoché non ha smesso di prestare le prime necessarie cure. Unico limite all’operatività di tale combinazione di norme è il fatto che il paziente deve trovarsi in vero pericolo di vita.

E a dire il vero quest’ultima situazione sembra essere molto vicina a quella dello stato di necessità; tanto che lo stesso Riz ritiene applicabile lo stato di necessità se ne ricorrono i ristretti limiti di operatività con la raccomandazione di vagliare con maggior severità i presupposti oggettivi di pericolo e di limitarli al primo soccorso. Altri autori parimenti ritengono applicabile la scriminante dello stato di necessità pur riconoscendo il sacrificio del diritto all’autodeterminazione del paziente.

Sembrerebbe potersi concludere che il dovere d’intervento (anche se il paziente dissente), almeno secondo gli autori citati, c’è in presenza della situazione tipo dello stato di necessità( o di pericolo ex art. 593 c.p.) accompagnata o dalla condizione del soccorritore e/o da un pregresso rapporto con il paziente o un terzo: il Riz limitandolo alle prime cure; lo Iadecola consentendolo tout court.

Comunque sia se non vi è una situazione d’urgenza o di necessità nessuno, o quasi( abbiamo visto in precedenza il caso del Pretore di Modica) pensa che sia lecito l’intervento contro la volontà del paziente. Sull’esistenza di un cosiddetto dovere di curarsi, che è cosa diversa del dovere di curare(che è del medico) si dirà nel capitolo sui trattamenti sanitari e la costituzione.

Come già detto si dirà successivamente del problema del rifiuto di cure e del diritto a lasciarsi morire per la sua importanza e per la notevole incidenza che ha sul problema che si discute nel presente elaborato.

Adesso si anticipa solo che un problema interno al trattamento psichiatrico può essere quello relativo al vaglio della capacità a dissentire che sovente viene lasciata allo psichiatra chiamato a prestare le cure.

Conclusioni sull’operatività del consenso dell’avente diritto e dello stato di necessità in ambito psichiatrico

Abbiamo appena visto come l’operatività del consenso dell’avente diritto, come scriminante combinata con lo stato di necessità per i casi di incapacità a consentire o di dissenso in presenza di rischio di danni seri alla propria vita, incontra difficoltà operative già a livello di medicina ordinaria.

Tali difficoltà vengono acuite, in ambito psichiatrico, per la specialità della relazione fra lo psichiatra ed il paziente e per la particolarità del paziente stesso; come tutta una storia di legislazione dimostra.

Se come vedremo, il consenso per la sua validità deve essere informato, non v’è chi non s’avveda di quanto sia difficile rispettare tale esigenza. E ciò proprio perché per definizione il consenso dell’ammalato di mente è denso di ambiguità; esso non di rado è proprio il "sintomo su cui lavorare" tanto che un vero consenso al trattamento giunge solo alla fine dello stesso.

Questo significa chiaramente che non è raro che il trattamento inizia proprio in assenza di un valido consenso e che anzi bisogna lavorare su aspetti della malattia di mente tali da condurre il paziente alla libera autodeterminazione. Un paziente in stato di confusione spazio temporale, per le più svariate cause, difficilmente sarà in grado di assentire al trattamento…anzi di solito egli viene accompagnato in ospedale dai parenti che lo "lasciano" nelle mani degli psichiatri del reparto; affinché lo riconducano a condizioni di intendere e di volere.

Non sempre però la situazione, almeno per ciò che concerne la valutazione della capacità di consentire è così scontata…spesso infatti il disturbo mentale involge aspetti della capacità di intendere e di volere di difficilissima oggettivazione. Alcune sindromi paranoidee o maniacali sono al limite fra l’essere atipico e la malattia mentale. Anzi, a ben vedere, raramente tanto il maniacale che il paranoico chiedono aiuto allo psichiatra; è chi gli sta intorno che per comprensibili difficoltà relazionali lo induce a presentarsi presso strutture di ricovero.

Il malato invece sente di stare bene come non mai(specie il maniacale); egli è infatti iperattivo, espansivo, non raramente di compagnia…solo che è disturbante a causa dell’ipertrofia del suo "io" che lo conduce ad essere eccessivo quando i mezzi di cui dispone non corrispondono ai suoi progetti.

Per dirla in altre parole è noto come riesce a "nascondersi" meglio l’imprenditore maniacale che si abbandona ad ardite speculazioni finanziarie rispetto all’operaio che improvvisamente avverte in se potenzialità nello stesso settore economico . Cambiando i termini della situazione discorso analogo può farsi per il paziente(poliziotto, detective, ecc.) paranoico che in situazioni di alta litigiosità appare più congruo della casalinga che si ritiene nel mirino della Mafia.

In tutti e due i casi il giudizio sull’incapacità di consentire appare difficile; anche perché il limite fra il disturbo psichiatrico e la malattia psichiatrica è spesso alquanto sottile.

Di questo difficilissimo compito è investito lo psichiatra che deve saper distinguere fra difficoltà di comprensione limitate a certi aspetti della mente e difficoltà a sapersi determinare liberamente. E’ un dato in psichiatria forense che se un paziente psichiatrico, tanto per riprendere l’esempio della sindrome paranoica, può essere incapace di intendere e di volere rispetto ad un reato non è detto che lo sia per un altro; per esempio se può essere probabile che il paziente paranoico uccida il suo presunto persecutore è meno probabile che difetti di capacità quando pone in essere un reato di truffa.

Cambiando perciò il dovuto, si deve poter concludere che la malattia mentale non è un tutt’uno e che essere malati di mente non vuole necessariamente dire che si è incapaci. Per cui è da rigettare la facile conclusione che porta a dire che il ricorso a mezzi coercitivi in psichiatria è lecito per il riscontro dell’incapacità di consentire pressoché regolarmente, con il risultato dell’applicazione dello stato di necessità.

Riguardo allo stato di necessità si può dire che esso risulta in ambito psichiatrico(almeno per ciò che attiene alle forme terapeutiche coercitive) di ancor più difficile applicazione. Teniamo conto che qui il fatto da scriminare è solitamente quello relativo alla privazione della libertà nelle forme della violenza privata(art. 610 c.p.), del sequestro di persona(art. 605 c.p.) del reato di maltrattamenti(di più rara applicazione) nonché del reato di cui all’art. 613 del c.p..

Se tanto per tornare allo stato di necessità guardiamo al requisito dell’attualità del pericolo vediamo che esso non ricorre quasi mai e ciò perché raramente esistono pericoli per la vita rispetto ad una malattia mentale che evolve negativamente, tale che senza un tempestivo intervento si pregiudica negativamente la salute.

Gli episodi di più facile verificazione, e che sono a monte di decisioni di tipo coercitivo,(contenzione a letto) possono riguardare pazienti confusi che si abbandonano ai comportamenti più strani, specie notturni, o pazienti in preda a crisi allucinatorie che rifiutano ogni contatto con gli operatori(visti magari come dei mostri) o solo deliranti che, "sui generis", lucidamente si oppongono ad ogni relazione terapeutica,( perché ritengono, per dire, gli operatori sanitari esecutori materiali di ordini che vengono dai servizi segreti….).

In casi del genere non può dirsi che esista un pericolo attuale per la persona del paziente; perché al più capiterà di delirare con maggiore intensità o di arricchire il quadro allucinatorio. E non risulta che mai nessuno sia morto di allucinazioni o di delirio. Se poi un fenomeno allucinatorio possa essere messo in relazione causale con episodi autolesionistici o suicidari è cosa oltre che difficile da dimostrarsi (ex ante) soprattutto futura. E ciò anche se gli elementi valutativi esistono già al momento della decisione coercitiva; perché non è facile prevedere eventi futuri che debbono tener conto di comportamenti umani futuri per il verificarsi dell’evento medesimo.

Insomma, fra la previsione dell’evento,(solo possibile) ed il verificarsi dello stesso ci sono troppi passaggi per poterlo collegare eziologicamente all’omissione dello psichiatra.

E ciò perché a ben vedere l’opposta soluzione del legare a letto, o comunque di limitare in altro modo la libertà, per il nobile scopo di impedire un possibile suicidio può apparire eccessiva, ma soprattutto indeterminata per la forma e per la durata.

A conclusioni diverse conduce la riflessione attorno al requisito del fare altrimenti. Si può obiettare: il ricorso alla coercizione era l’unico possibile? A parte i casi in cui c’è il tempo di ricorrere ad un trattamento sanitario obbligatorio,(pur se rimangono dubbi rispetto alla coercibilità di esso) che pare rendere leciti atti di coercizione, pochissime altre soluzioni sono state prospettate dalla letteratura psichiatrica. Ma sembrano tutte poco realizzabili: un elevato numero di operatori che dialoga con il paziente in attesa che facciano effetto determinati farmaci….quando però il paziente accetta di assumerli ma continua a cercare le dimissioni, tecniche cosiddette di detenzione dell’aggressività… insomma nessuna di esse risolve il problema di che cosa fare nell’immediatezza.

Diverso è il discorso attorno al requisito della non contribuzione volontaria del pericolo. Si ritiene pacifico in letteratura psichiatrica che quando le patologie mentali evolvono verso quadri di crisi raramente, ciò avviene senza segni prodromici, che se correttamente valutati consentono di evitare la situazione di emergenza. Ed in effetti è frequente il quadro che conduce alla necessità di ricorrere a misure coercitive insorto in costanza di ricovero; tale che lo psichiatra intervenendo per tempo e correttamente lo avrebbe evitato. Questo, lo si ricorda, perché, per la sua esistenza, lo stato di necessità richiede che il pericolo non debba essere stato volontariamente determinato dall’agente.

Da ultimo la questione del mezzo adeguato sembra chiaramente deporre per far apparire eccessivo legare a letto un malato per costringerlo a curarsi e non fare così stranezze.

Conclusivamente, pur rilevando la necessità di un intervento, rispetto alla persona malata di mente disturbante e potenzialmente auto-eteroaggressiva , non pare, il ricorso allo stato di necessità, di aiuto a scriminare i fatti tipici potenzialmente riportabili sotto il dominio dei reati contro la libertà morale della persona.

Sul fatto del se possa ritenersi titolare di diritti della libertà la persona "incapace" di apprezzarne la privazione si è già autorevolmente espressa la giurisprudenza rilevando come "Ai fini della configurazione del reato di sequestro di persona deve prescindersi dall’esistenza nell’offeso di una capacità volitiva di movimento e istintiva di percezione della privazione della libertà, per cui il delitto è ipotizzabile anche nei confronti di infermi di mente o di paralitici,(nell’affermare il principio in massima la Cassazione ha evidenziato che la persona umana è da considerarsi libera non in quanto abbia capacità di muoversi, ma in quanto sia assente ogni coercizione che sottragga il suo corpo a possibilità di movimento nello spazio)". Rimane solo da considerare come la questione della liceità della coercizione in ambito psichiatrico probabilmente sia da ricercare altrove.

4. l’esercizio di un diritto

La teoria dell’esercizio di un diritto quale scriminante dell’attività medico-chirurgica è senz’altro legata al Mantovani che ne è stato il principale assertore. Si ritiene qui, rifacendosi alla teoria dell’azione socialmente adeguata, che la professione medica è attività meritoria e non può essere che già nella sua materialità sia illecita; in particolare visto che l’ordinamento autorizza una determinata professione così com’è il titolare di questa autorizzazione quando la pone in essere esercita un proprio diritto e quindi non integra un fatto tipico di reato.

E se poi sussiste il consenso del paziente in quanto atto di autodeterminazione e scriminante i conti tornano perfettamente: assenza di fatto tipico per via della scriminante dell’esercizio di un diritto che si fonda su di un fatto sociale di alto valore; consenso del paziente per il rispetto dei diritti della libertà.

Infatti il consenso del paziente si considera come requisito-limite all’esercizio del diritto alla professione assieme ad altri limiti come il principio della salvaguardia della vita, integrità fisica, e salute; il principio della salvaguardia della dignità della persona umana; il principio dell’eguaglianza e pari dignità dei soggetti umani. In caso di mancanza della capacità a consentire si può ricorrere al consenso presunto se sussistono le condizioni di urgenza necessità terapeutica.

La teoria del Mantovani appare molto rispettosa della persona umana ed in linea con i dettami della nostra costituzione che si ispira al principio personalistico e del rispetto della persona umana e della sua dignità. Anche rispetto ai limiti di operatività del consenso di cui all’art. 5c.c. ritiene l’autore che esso deve considerarsi in connessione con l’art. 32 della Costituzione introducendo così una deroga al principio della limitata disponibilità del proprio corpo; in omaggio al più vasto diritto alla salute. Di opinioni diverse e molto critico verso questa teoria il Manna che invece ritiene operanti i divieti contenuti nell’art.5 c.c..

Ed è lo stesso Manna a segnalare il limite alla teoria dell’esercizio di un diritto che ha rinvenuto nel fatto che non sempre nell’attività medica si può parlare di esercizio di un diritto ma sovente di adempimento di un dovere o meglio ancora di attività medica in esecuzione di un obbligo com’è nei casi di trattamenti sanitari obbligatori.

Più penetrante, invece, appare essere la critica riferita alla difficoltà di far entrare nell’esimente dell’esercizio di un diritto tutta l’attività medica come se fosse un unico diritto da esercitare; infatti essa si compone di diritti, facoltà, doveri.

Tuttavia una recente sentenza della Corte di Cassazione appare parzialmente riconducibile a tale orientamento "L’attività medica trova fondamento e giustificazione non tanto nel consenso dell’avente diritto, che incontrerebbe spesso l’ostacolo dell’art. 5 c.c., bensì in quanto essa stessa legittima, ai fini tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato".

Viste le difficoltà operative del consenso presunto cui si sarebbe costretti a ricorrere nel caso di incapacità a consentire, che sappiamo essere la situazione tipica dell’ambiente psichiatrico, tale teoria sembra aiutarci poco a risolvere il problema in tesi. Ciò soprattutto per l’impossibilità, anche per la teoria in parola di prescindere dal consenso del paziente e per il rispetto della persona umana che attraversa le pagine dell’autore più autorevole della teoria in parola.

Ancora la necessità del consenso, ed in mancanza la rigidità dei presupposti per interventi che ne prescindono, sembrano rendere illeciti in ambiente psichiatrico quegli atti di coercizione assistiti solo da vaghe considerazioni di utilità sociale dei medesimi.

5. L’adempimento di un dovere

Secondo alcuni autori, il trattamento sanitario, eseguito da persona abilitata alla professione, sarebbe giustificato come adempimento di un dovere.

Tale obbligo sarebbe collegato alla responsabilità penale per omesso impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire(art.40 c.p.). Data l’analogia fra l’omesso impedimento e la commissione dell’evento nascerebbe una posizione di garanzia, nella forma della protezione, di una persona incapace di tutelare da sé il proprio bene . Dalla regola contenuta nell’art.40 secondo comma del c.p.; dall’incontro di essa con le norme di parte speciale contenute nel codice penale o in altre leggi e purché si tratti di reati commissivi di evento, causalmente orientati, nascerebbe la posizione di garanzia in capo a taluni soggetti.

Gli elementi necessari perché si costituisca la posizione di garanzia sono l’incapacità da parte del titolare di tutelare da se il bene che cadrà "garanzia" e l’insorgere del rapporto fra garante e garantito. Tale rapporto può trovare origine nella legge; nel duplice senso della previsione di un trattamento sanitario obbligatorio o (come pare credere il Bricola) nelle norme che istituiscono e autorizzano una certa professione. Ma può anche trovare ragione nel contratto e di conseguenza nella volontà del garantito.

Se con il Bricola si ritiene che la liceità del trattamento sanitario "si trova nell’obbligo che il medico ha di impedire il progresso della malattia del paziente, la sua morte ecc.., cioè nell’art 51 c.p.; obbligo che però nasce subordinatamente a talune condizioni prefissate dall’arte medica tramite regole la cui trasgressione comporta responsabilità colposa per l’esito sfortunato. Quest’obbligo nasce, inoltre, quando sia in gioco il bene della conservazione della vita o della salute del paziente, non così quando l’intervento risponda a finalità meramente estetiche. Qui la liceità ha da fondarsi soltanto sull’eventuale consenso dell’avente diritto…"

Si è riportato questo passo perché chiarisce bene il concetto che secondo l’Autore il fondamento della liceità dei trattamenti sanitari poggia su elementi che prescindono dal consenso,(a condizione però che si abbia a che fare con trattamenti terapeutici) quali sono le condizioni prefissate dall’arte medica o la necessità di conservare la vita o la salute del paziente.

Il Bricola ritiene leciti trattamenti i sanitari anche contro la volontà del paziente e pur in assenza di un puntuale adempimento di legge(t.s.o.).

Ritiene, all’opposto, necessario il consenso per trattamenti sanitari posti in essere da persone non abilitate all’esercizio della professione.

Altri invece, nel ritenere inapplicabile ai trattamenti sanitari la regola dell’adempimento di un dovere, ritengono tuttavia che il dovere di curare deve necessariamente nascere o dal consenso al contratto di cura o da uno specifico obbligo di legge; come vuole l’art. 32 Cost. e come prevede la L. 833 del 23/12/78 all’art.33.

La posizione di garanzia nella forma di protezione del bene salute,(per ciò che ci riguarda) contro tutte le fonti di pericolo, se mette il garante nella speciale condizione di responsabile rispetto ai pericoli che il paziente può correre non per questo gli è consentito prescindere dal consenso del garantito.

Questa teoria inoltre non terrebbe in alcun conto l’importante tema del diritto a non curarsi e a lasciarsi morire ritenuto invece operante dalla maggior parte della dottrina. In un ordinamento giuridico come il nostro a Costituzione a ispirazione personalistica, pur con importanti aspetti solidaristici, non è possibile privare una persona, capace di farlo, del proprio diritto ad autodeterminarsi in ordine ad un bene così importante come la salute. Ed è bene ricordarlo "salute" non vuol dire assenza di malattia ma pieno benessere fisico e psichico; e visto che nei recenti orientamenti della medicina sempre più si parla di "convivenza" con certe malattie( ad esempio talassemia per un testimone di Geova) non ci dovrebbe essere nessuna questione se una persona capace decide di non curarsi.

E al di là del fatto che esistono malattie inguaribili ma curabili è un fatto di scelta personale stabilire il proprio grado di benessere psichico e fisico; è un dato che quasi da nessuna delle psicosi più importanti( schizofrenia, depressione maggiore, ciclotimia ecc..) si guarisce; al più attraverso cure appropriate di raggiungono stadi di disagio di minore intensità rispetto alle stesse malattie( o sindromi che dir si voglia) non curate. Anche se, bisogna dirlo, la maggior parte dei pazienti psichiatrici, pur con il proprio grado di coscienza di malattia , ritiene di stare bene.

Al di là di queste considerazioni, rimane comunque il fatto che, non può essere disconosciuto il diritto a non curasi come mero aspetto del diritto alla salute.

Se c’è il diritto a professare una certa religione tale diritto copre sicuramente il caso del diritto a non professarne alcuna; così dev’essere per il diritto alla salute sia in quanto diritto a curarsi che diritto a non curarsi. Tutto ciò almeno fino a quanto la malattia non curata, per la sua natura, non minacci la salute degli altri consociati in quanto titolari di un interesse proprio.

Da queste ultime parole già si avverte l’eco del secondo comma dell’art. 32 della Costituzione Italiana; ed infatti dalla combinazione dell’art. 13 con l’art. 32 2° comma Cost. la stragrande maggioranza della dottrina rinviene il diritto a rifiutare le cure e a lasciarsi morire. Ma poi anche la L. 833 del 23/12/78 all’art.33 e segg. stabilisce il principio della volontarietà del trattamento sanitario. L’eccezione prevista negli stessi artt. e nella Cost. conferma la regola che i trattamenti sanitari obbligatori devono essere previsti da specifica legge e, giusto per concludere con il discorso della scriminante dell’adempimento di un dovere, la norma contenuta nell’art. 40 2° comma non soddisfa il dettato costituzionale proprio a causa della sua genericità.

Viene, a dire il vero, rispettato il principio di legalità con l’incontro, per fare un esempio, fra la norma di cui all’art. 575 e l’art 40 c.p., ma la norma che prevede la punizione di chi cagiona la morte di una persona(omettendo di impedirla) non disciplina trattamenti sanitari.

Per le medesime ragioni per cui non si ritiene applicabile la tesi dei trattamenti sanitari quali adempimento di un dovere alle situazioni di medicina e chirurgia generali si ritiene inapplicabile tale tesi ai trattamenti sanitari psichiatrici. E qui per l’ovvia ragione che al bisogno ha già provveduto il legislatore a disciplinare trattamenti sanitari obbligatori con gli artt. 34-35 della L. 833 del 23/12/1978; e francamente non avrebbe senso prevedere trattamenti obbligatori a condizioni così tassative e con procedure così puntuali se poi in via ordinaria il solo fatto della posizione di garanzia già bastava ad imporre il trattamento.

Va però riconosciuto che l’idea della posizione di garanzia è molto diffusa in ambiente psichiatrico.

Il timore di subire conseguenze penali per fatti che può commettere il paziente, fondato anche su alcune decisioni giurisprudenziali di condanna dello psichiatra,(omicidio colposo) per aver omesso di impedire, attraverso il non ricorso ad un t.s.o, un omicidio commesso dal paziente spinge il medico a ricorrere a mezzi coercitivi nei confronti dello stesso sembrandogli questo il male minore.

Ed in effetti a vedere il quadro delle decisioni giurisprudenziali si può dire che tale scelta non è campata in aria; infatti non si conoscono sentenze, edite, per fatti di privazione della libertà del paziente psichiatrico in ambiente civile e post riforma.

Sono per il vero note sentenze di sequestro di persona per ricovero arbitrario in ospedale psichiatrico in vigenza della legge 36/1904 e del relativo regolamento esecutivo R.D. 615/1909 e sentenze che condannano l’abuso di mezzi di contenzione in ambiente carcerario…segno che ne è consentito l’uso (si ritiene dall’art. 41 della l.354/ 75 e dall’art. 77 del DPR 431 del 29/4/76.

Questo fa concludere allo psichiatra che è più temibile l’eventuale reato di omesso impedimento che quello privativo della libertà; in altre parole di fronte al paziente delirante che minaccia gesti clamorosi di auto etero-aggressività, per non rischiare di essere accusati di omicidio colposo nel caso di uccisione di un uomo da parte del paziente o di vedersi addossare il suicidio,(omicidio colposo) si preferisce trattenere il paziente nel luogo di ricovero.

Naturalmente questo timore non basta a fondare la liceità dell’atto contenitivo né la posizione di garanzia si può spingere fino al punto da porre in essere atti coercitivi; ciò perché la situazione di incapacità a tutelarsi da sé riguarda la tutela della salute del paziente(non della comunità in genere) e il medico(psichiatra) deve farsi garante della stessa salute facendolo però con i mezzi ordinari e straordinari della scienza medica.

Lo psichiatra che, con il ricovero del paziente, è divenuto garante della salute dello stesso e deve limitarsi a porre in essere gli atti per i quali è obbligato; cioè quegli atti medici che possono dirsi trattamenti. Abbiamo già visto all’inizio del presente elaborato che quasi nessuno in letteratura psichiatrica ritiene trattamenti gli atti di coercizione; lo psichiatra è tenuto a prestare le cure che gli vengono richieste dal paziente o imposte dalla legge. Solo entro quest’ultimi limiti opera l’obbligo di garanzia; e nel caso di necessità di impedire atti contro l’incolumità di persone per le quali non è avvenuta la presa in carica(necessaria per l’insorgere della posizione di garanzia di protezione) bisogna ricorrere all’intervento delle forze dell’ordine pubblico che invece sono titolari della posizione di garanzia di controllo di tutti i beni contro determinate fonti di pericolo.

Ciò anche alla luce del fatto che la legge di riforma sanitaria(833/78) ha fatto venire meno l’obbligo di custodia dei pazienti psichiatrici ricoverati facendo emergere la prevalenza dell’aspetto terapeutico nella relazione con il paziente psichiatrico.

Con questa sommaria conclusione ho cercato di dimostrare come nessuna delle teorie finora poste a fondamento della liceità del trattamento sanitario è servita a giustificare il ricorso agli atti coercitivi nei trattamenti psichiatrici.

Nei capitoli seguenti cercherò di dimostrare come, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, (ma anche deontologici per ciò che riguarda i medici), che sono ancora più attenti alle nuove esigenze di rispetto della libertà di determinazione riguardo alla salute tali pratiche non trovano riscontro nel quadro normativo vigente; collocandosi così inevitabilmente nell’area dei fatti tipici.

Ma bisogna anche tenere conto, onde non offrire un immagine di professionisti dediti al delitto, che sul piano delle cose concrete non è possibile una soddisfacente soluzione diversa senza un intervento del legislatore. Ne può essere un segnale l’ambivalenza della società che "pressa" lo psichiatra avanzando compulsivamente richieste di controllo quando un paziente si fa autore di reati e di garanzia quando si legge sui giornali di "abusi" sui medesimi ammalati.

Emerge così imperiosamente il già citato atteggiamento di "medicina difensiva" che viene a "contagiare" anche la psichiatria in passato priva di problemi giudiziari per via della scarsa tendenza alla querela dei propri pazienti. Di tale atteggiamento difensivo ne soffrono com’è noto tanto i malati che così vengono ad usufruire non della miglior cura ma di quella che si espone a minori rischi giudiziari quanto gli psichiatri.

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Capitolo IV

1. Il consenso informato

Dopo aver trattato del problema del fondamento della liceità del trattamento sanitario seguendo l’impostazione classica della dottrina della liceità già a livello di fatto tipo, delle scriminanti non codificate e di quelle codificate un cenno a parte merita la questione del consenso informato; che non può essere considerato il consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 del c.p.

Con il consenso informato si pone la questione della liceità dei trattamenti sanitari in una prospettiva "nuova" e diversa rispetto al passato.

In questa prospettiva il paziente recupera un ruolo centrale; tale che viene ribaltata la "vecchia" impostazione che vede il trattamento medico( pur, al limite, nel rispetto del consenso dell’avente diritto) come un dovere del medico a vantaggio di un’altra che lo vede come un diritto del paziente. Tale è infatti il diritto alla salute come espressione della propria autodeterminazione, e che come osservato, promana direttamente dalla nostra Costituzione(artt. 13 e 32).

Dal diritto alla salute scaturisce anche il diritto a rifiutare le cure mediche "lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze".

A fronte di affermazioni così precise, non incidentali, autorevoli…e confermate dai successivi gradi del giudizio c’è da chiedersi come mai vi siano così tante resistenze ad accogliere il "nuovo corso".

Nell’annoso dibattito fra l’accoglimento del principio di beneficialità o del principio di autonomia storicamente è prevalso il primo. E cioè quello per cui il medico che conosce il bene del suo paziente è autorizzato a decidere per lui; il bene del paziente è un dato oggettivo definibile scientificamente o anche moralmente ed il consenso dello stesso conta fin quanto non confligge con tale definizione. Questa impostazione porta a concludere necessariamente alla identificazione di doveri a carico dei pazienti stessi; primo fra tutti il dovere di curarsi e di farsi curare come riflesso dell’indisponibilità del bene salute in quanto presupposto della vita. Anche impostazioni teoriche laiche ritengono doveroso farsi curare, ritenendo impegno dello Stato applicare i dettami della scienza medica in quanto realizzazione della tutela della salute pubblica.

Lentamente, nel corso degli anni, si è fatto strada un concetto diverso del bene delle persone, un concetto che tiene conto del valore dell’individualità e dell’autonomia; quest’ultima intesa come capacità della volontà di determinarsi in conformità ad una legge propria indipendentemente da condizioni fenomeniche.

Lo Stato, la legge e meno che mai privati cittadini, non possono occuparsi dei valori morali (che devono essere riservati alla sfera del singolo individuo) degli uomini, che fintanto che non intaccano interessi altrui devono essere lasciati liberi di fare a proprio rischio e pericolo.

Ora non curarsi(salvo malattie ad alta diffusività) e lasciarsi morire sarebbe affare di chi si determina in tale modo. Tuttavia, un concetto così lato di libertà, che giunge fino a negare il presupposto di essa…la vita.., trova difficoltà ad essere pienamente accolto.

Per dirla con Giuliano Amato, si è nella sfera della libera determinazione quando si possono fare scelte che non rendono impossibile per il futuro l’esercizio della capacità di scelta. Scegliere di morire come libertà di scelta vuol dire negarsi per il futuro la libertà di scegliere.. visto che si presume che i morti non scelgono. Comunque la si metta qualsiasi tentativo di limitare la libertà di autodeterminazione si risolve con il negarla proprio perché i valori di riferimento su cui fondare il limite sono appunto esterni al singolo individuo.

Al di fuori del dibattito etico, una scelta di campo a favore dell’autonomia sembra averla fatta la giurisprudenza con decisione attorno alla questione "Massimo". In questa sentenza si sono considerate lesioni personali le incisioni effettuate per eseguire un intervento chirurgico, lege artis, ma senza il consenso informato della paziente che essendo morta a seguito delle lesioni la condanna è stata per omicidio preterintenzionale.

Questa decisione suggerisce una maggiore attenzione al consenso informato del paziente perché nel caso in specie la paziente aveva acconsentito ad un intervento diverso da quello poi eseguito senza che vi fossero le condizioni dell’urgenza o necessità richieste per l’applicazione dello stato di necessità. La paziente ha voluto la propria condotta di sottoporsi al trattamento ma si è rappresentato un evento e una condotta del medico diversa da quello poi venuta in essere.

La questione del consenso informato pone un rapporto con il medico improntato ad un nuovo "vincolo sociale" ove la volontà del paziente è centrale e irrinunciabile per la liceità del trattamento quando si tratti di paziente capace di autodeterminarsi ed essa deve formarsi rappresentandosi tutti gli elementi della decisione che deve prendere. Dato, perciò per scontato che informazione ci deve essere, bisogna ora sapere quanta e quale deve essere.

Si ritiene, specie nelle decisioni della giurisprudenza anglosassone, sufficiente l’informazione conforme allo stato delle conoscenze della scienza medica. Come si vede un parametro esterno al soggetto decidente e riservato al medico. Si fa, però strada, una concezione che ritiene invece necessaria un informazione adatta al paziente che nel caso specifico deve prendere la decisione.

Attentissimo alla questione del consenso è il nuovo CODICE DI DEONTOLOGIA MEDICA che specificatamente parla di consenso informato(art.32) raccomandando al medico di non intraprendere nessuna attività diagnostica e/o terapeutica in assenza di esso. Riguardo il contenuto dell’informazione stabilisce l’art. 30 del medesimo codice che essa deve concernere: la diagnosi, la prognosi, le prospettive e le alternative diagnostico-terapeutiche e le prevedibili conseguenze delle scelte operate.

Rispetto alla capacità di comprensione del paziente si aggiunge: "il medico" nell’informare il paziente "dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche."

Per il diverso aspetto del rifiuto delle cure e della autonomia, si legge ancora nell’art. 32 4° comma" In ogni caso, in presenza di un documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non ricorrono le condizioni di cui al successivo articolo 34" . Ed in effetti si legge all’art. 34 " Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona.

Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso."(….)

Da ultimo ancora l’art. 35 " allorché sussistano condizioni d’urgenza e in caso di pericolo per la vita di una persona che non possa esprimere, al momento, volontà contraria, il medico deve prestare l’assistenza e le cure indispensabili". Il nuovo rapporto medico-paziente sembra così ineluttabilmente avviato al massimo rispetto della capacità di autodeterminarsi. Rimane da chiarire il riferimento alla dignità, libertà, indipendenza professionale, nel rispettare la volontà di curarsi; forse si allude alla possibilità per il medico di rifiutare terapie che ripugnano alla propria coscienza professionale.

Da segnalare è il riferimento alla mancanza della volontà contraria alle cure perché le stesse possano dirsi lecite pur se in condizioni di necessità.

Cioè in condizioni d’urgenza si può intervenire solo se manca il consenso e se il medico non conosce una diversa precedente e valida volontà contraria. In presenza di volontà contraria attuale, validamente espressa non si può intervenire. Mi sembra un implicito riferimento al testamento di vita che come sappiamo opera come volontà per il futuro; quindi un inizio di tentativo di superare l’attualità del consenso, la cui mancanza, non di rado, è stata utilizzata come passe-partout per allargamenti verso lo stato di necessità o il consenso presunto.

Il che non può non essere salutato che come un ulteriore riconoscimento del principio di autonomia.

La filosofia del principio di autonomia, a discapito del principio di beneficialità, che sottende al consenso informato sembra essere stata sufficientemente accolta dal nuovo codice deontologico dei medici. Si tratterà di vedere quale effettività avranno queste norme nella prassi quotidiana. Adesso non rimane che chiedersi quale influenza ha avuto il nuovo corso del consenso informato in ambito psichiatrico.

2. Il consenso informato in ambito psichiatrico

Indubbiamente va detto che il consenso nel rapporto fra lo psichiatra ed il paziente acquista una valenza del tutto particolare. Come particolare è la relazione fra il paziente e lo psichiatra. L’espressione, "avere in cura" un paziente, in ambito psichiatrico, acquista una valenza più penetrante che altrove; e ciò soprattutto per il personale coinvolgimento, anche emotivo, del curante stesso.

Il punto di partenza sta, mi pare, nell’osservazione che nel rapporto con il malato di mente "il consenso di solito non costituisce la premessa ma il punto di arrivo del trattamento" . Nel tenere separato il concetto di consenso da quello di assenso si ritiene che il consenso costituisce, dall’etimo con-sentire, una partecipazione di sentimenti, di finalità e di progetti che finiscono con il diventare patrimonio comune del paziente e del medico.

Ciò vale, a maggior ragione, per la relazione psichiatra paziente ove sono più frequenti i casi nei quali la relazione si imposta su di un semplice assenso; cioè situazioni nelle quali sono i parenti(di solito i primi ad avvertire i sintomi della malattia) a spingere il paziente a rivolgersi allo psichiatra; e al paziente medesimo non rimane che dare al trattamento un semplice assenso.

Meno frequenti invece le situazioni nelle quali è lo stesso paziente, che ha coscienza di malattia, che si determina al trattamento. Residuano per grado inferiore di frequenza, ma non per questo rari, i casi di grave incoscienza di malattia e dissenso al trattamento.

La relazione sostenuta dal consenso imposta un rapporto diadico, birelazionale, ove si realizza una sorta di "alleanza terapeutica" con l’obiettivo di mettere il paziente nelle condizioni di acquisire sempre più maggiori spazi di autonomia. Il compito è quello di lavorare sui residui spazi di libertà che comunque ha a disposizione ogni paziente psichiatrico; anche quello che apre il rapporto terapeutico mediante il semplice assenso; ma può dirsi anche che il paziente dissenziente perché assolutamente privo di coscienza di malattia(tale da impedirgli di consentire validamente) ha spazi di libertà su cui operare.

Se libertà vuol dire maturare delle decisioni senza condizionamenti ne interni ne esterni può dirsi libero il malato di mente che rifiuta le cure?

Tutto ciò lo si dice perché si parte dall’assunto che la malattia mentale spesso involge la capacità di intendere, oltre che di volere.. E se è vero che la malattia impedisce al paziente di comprendere e il consenso è soprattutto informazione come può essere libero il paziente che difetta di capacità di informazione?

Senza con ciò voler fare un tutt’uno dei malati mentali e al di là dell’aspetto della coscienza di malattia non può negarsi che il rifiuto delle cure può essere un sintomo della stessa patologia; spesso è un rifiuto che difetta della capacità di comprensione e perciò di informazione, quindi invalido.

A fronte di questa situazione che pare portare alla conclusione della inapplicabilità dello schema del consenso informato in ambito psichiatrico si può dire che non soddisfa la teoria che fa dello psichiatra "la protesi della libertà del paziente".

Questa idea, pur nobile, che parte dal giusto rilievo della debolezza del malato mentale, della conseguente "alleanza terapeutica"(peraltro almeno per una delle parti dell’alleanza inconsapevole) e della "costruzione del consenso" come progetto terapeutico conduce inevitabilmente al principio di beneficialità che attribuisce ad una parte la libertà di decidere cosa è bene per la parte incapace di farlo da se.

"Only person write or read books on philosophy"; con questa affermazione perentoria e provocatoria il Santosuosso si avvia alla conclusione del volume "il consenso informato…" più volte citato .

Essa sta a significare, chiaramente, che si vuole fare una differenza fra persone. Esistono infatti persone in senso stretto che sono gli agenti morali, razionali, in grado di fare scelte razionali e la vita biologica umana, che comprende fra l’altro i malati di mente gravi. Al di sotto vi è poi la vita animale, le cose e gli enti collettivi.

Il malato di mente grave, com’è comprensibile è una forma di vita biologica umana non una persona in senso stretto. A questa "forma di vita biologica umana" non è riconosciuta una libertà morale ma una protezione adatta al suo status.

A questo punto una questione di non facile soluzione può essere quella di domandarci chi, e secondo quali criteri, stabilisce quando una malattia di mente è talmente grave da far degradare il suo portatore a forma di vita biologica umana.. se non addirittura stabilire quando vi è malattia mentale.

Il problema come è comprensibile è di difficile soluzione, se la soluzione vuole essere rispettosa del principio di autonomia, e per altro non è oggetto del presente elaborato. Qui si osserva soltanto, che a quadro normativo vigente e fermo, non sono possibili(neanche sostenuti dalle nobili intenzione appena esposte) atti di coercizione rispetto a pazienti recalcitranti al trattamento psichiatrico; anche se il rifiuto è un sintomo della malattia medesima.

E se è vero che il consenso è il punto di arrivo del trattamento psichiatrico, non può negarsi che, de iure condito, nelle more dello stesso, si è scoperti sul piano della liceità fintanto che non arriva il consenso e si mantiene il dissenso(o con qualche margine di incertezza l’assenso) che inevitabilmente deve essere rispettato. Ed il rispetto lo si ha o ponendo in essere gli adempimenti per l’attuazione di un t.s.o., se vi sono i presupposti, o lasciando vivere al paziente la sua malattia. E ciò perché il problema dell’autonomia e del consenso informato può essere questione solo di chi ha lo status di persona in senso stretto secondo il provocatorio schema in precedenza riportato.

Nel capitolo seguente verrà affrontato il problema del consenso al trattamento in relazione al dettato costituzionale e ciò perché pare allo scrivente che nelle impostazioni, per così dire, "penalistiche", il profilo dei diritti di liberà venga trascurato; o al più si "adatta" la teoria( delle scriminanti codificate, solo per fare un esempio) al dettato costituzionale…. E non viceversa.

Mi sembra inoltre che l’impostazione costituzionalistica, proprio perché parte dai diritti di libertà, anche a livello di "schema mentale" ha un maggior riguardo per la persona; ed infatti tutte le proposizioni sono costruite avendo come soggetto il paziente in quanto persona titolare di diritti o doveri e non già il medico o la medicina(in quanto scienza) titolare di diritti o doveri.

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Capitolo V

1. Trattamenti sanitari e Costituzione.

Per quanto riguarda i trattamenti sanitari occorre fare un riferimento all’art.32 della Costituzione il quale testualmente recita:

"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge .L a legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana."

La chiara opzione costituzionale è per il consenso come principio guida per i trattamenti sanitari; l’obbligo al trattamento medesimo come l’eccezione.

Il problema che si è posto, specie a ridosso di alcuni fatti di cronaca accaduti tanto in Italia quanto all’estero( Germania in specie) è quello di verificare se, date certe situazioni di pericolo per la salute della persona e/o della collettività esistono obblighi di cura a carico dei cittadini anche al di fuori di specifiche leggi che li prevedano. I casi di cronaca a cui mi riferivo poc’anzi sono di frequente trattazione in ambito di medicina legale e sovente rappresentano la linea di frattura nel rapporto fra medico e paziente: il caso del paziente che per motivi religiosi rifiuta le trasfusioni ematiche necessarie; il rifiuto da parte dei genitori di sottoporre il proprio figlio alle vaccinazioni; il rifiuto di alimentarsi come opzione di lotta politica a fronte di pericoli della salute; il problema del diritto a lasciarsi morire connesso al suicidio o all’eutanasia…

In tutti questi casi il medico, (diverso il caso del rapporto terapeutico contratto in ospedale da quello avvenuto in regime di libera professione o casualmente), si è trovato costretto a fronteggiarsi con il dissenso del paziente al trattamento sanitario proposto. Per ognuno dei casi tracciati sopra si è trovata una soluzione diversa.

In alcuni casi è apparso corretto il ricorso alla magistratura, come per il caso dei genitori recalcitranti alla vaccinazione obbligatoria per i figli o per il caso del testimone di Geova, adulto, che rifiuta la trasfusione… in altri casi invece si è intervenuti direttamente invocando lo stato di necessità o l’obbligo d’intervento richiamandosi in buona sostanza alla posizione di garanzia.

Si vedrà, succintamente, nei paragrafi successivi se tale prassi trova riscontro in dottrina e delle obiezioni che suscita Si vuole, adesso, solo anticipare che tale prassi di superare in questo modo non, si badi, la mancanza del consenso, ma l’aperto, e perlomeno generalmente valido, dissenso non pare trovare sicuri riferimenti normativi a conforto della liceità. Da qui i dubbi se possa riscontrarsi nel nostro ordinamento un obbligo a curarsi o a lasciarsi curare e la consapevolezza che trattamenti sanitari posti in essere contro la volontà del paziente sono da considerarsi obbligatori se non addirittura coattivi.

Vediamo adesso qual è l’impostazione che il nostro legislatore costituzionale ha inteso dare ai trattamenti sanitari.

Come abbiamo visto la regola è il consenso, posto che "nessuno" può essere obbligato ad un determinato trattamento se non per disposizione di legge. L’eccezione sono i trattamenti sanitari obbligatori, che quando sono ( perché devono esserlo) previsti da una legge occorre che lo siano in maniera determinata.

Cioè a dire l’art. 32 2° comma non impone di curare certe malattie ma di subire determinati trattamenti; e perché ciò possa avvenire occorre che vi sia un interesse della collettività. L’interesse della collettività non è quello di un numero indefinito di persone ma la somma dei singoli che costituiscono un certo contesto sociale ed è interesse-diritto alla propria salute. Non può cioè trattarsi né di sanità pubblica, ne di sicurezza pubblica ma di salute pubblica. Insomma perché un trattamento sanitario possa, secondo legittimità costituzionale, essere imposto occorre che sia finalizzato sia alla cura della persona che lo subisce sia ad un interesse per la salute della collettività. Ad esempio tale requisito è senz’altro soddisfatto quando si tratta di imporre il trattamento di malattie infettive ad alta diffusione; com’è è il caso di alcune vaccinazioni. Sembra essere meno soddisfatto quando si passa(come si farà successivamente) considerare i trattamenti sanitari obbligatori psichiatrici ove l’interesse per la collettività è più sfumato; salvo far rientrare nel concetto di salute l’altro di sicurezza pubblica. Detto ciò si deve concludere che sono fuori dal dettato costituzionale quei trattamenti imposti unicamente allo scopo di tutelare o solo la salute del singolo o solamente la salute della collettività.

Quando questi requisiti materiali sussistono, per imporre il trattamento sanitario occorre che il legislatore si pronunci normando nella forma di legge.

In questo modo il legislatore costituzionale ha inteso imporre una riserva di legge per ciò che attiene ai trattamenti sanitari, riserva che secondo taluni è relativa secondo altri assoluta. Da ciò ne deriva che nessun medico potrà eseguire un trattamento sanitario senza il consenso del paziente o senza una legge che lo imponga. Il contenuto della legge che disciplina sul trattamento sanitario obbligatorio deve essere quello di determinare puntualmente il trattamento imposto.

La riserva di legge è soddisfatta solo se ad essere previsto in essa è un determinato trattamento e non una generica previsione di cura; leggi tipo l’autorizzazione alla professione o le scriminanti previste nel codice penale, non sono sufficienti a dare legittimità a trattamenti sanitari imposti.

Non basterebbe, ad esempio, dire che: essendo la norma di cui all’art. 54 del c.p. prevista da legge tanto basta a rendere legittimo il trattamento eventualmente imposto avendone invocato l’applicazione. Così non può essere anche perché in tal modo si verrebbe a creare la situazione, possibile, del paziente dissenziente, a cui sulla base di una valutazione scientifica venga imposto un trattamento in barba al dettato costituzionale che invece richiede una legge per un determinato trattamento.

Insomma l’indeterminatezza delle norme scriminanti, sulle quali si fonda,(secondo le teorie esaminate in precedenza) la liceità del trattamento sanitario, fa da ostacolo alla compatibilità con il dettato costituzionale.

Inoltre la dottrina giuscostituzionalistica è concorde nel ritenere tale riserva di legge rinforzata dal rispetto della dignità della persona umana. Tale rispetto impone limiti nell’esecuzione del trattamento che deve essere tale da rispettare le convinzioni etiche religiose e personali della persona.

Sarebbero insomma vietati, allo steso legislatore, trattamenti umilianti e degradanti la persona umana nonché quelli rivolti unicamente al benessere della collettività. Sarebbero contrari al requisito del rispetto della dignità della persona umana anche i trattamenti imposti unicamente al fine di garantire la salute del solo paziente. In tal modo, infatti, egli verrebbe ad essere privato del diritto alla libera autodeterminazione sulla base di "umilianti" e moralistici principi di uno Stato paternalistico. Un ultimo aspetto da tener in conto e che potrebbe allo stesso modo confliggere con il principio del rispetto della persona umana è la questione della coercibilità dei trattamenti sanitari. Al di fuori del problema della, eventuale, doppia riserva richiesta per i trattamenti sanitari coattivi; cioè se accanto alla riserva di legge rinforzata è richiesta anche la riserva di giurisdizione(come vuole l’art. 13 della Costituzione) ci si chiede se la coercizione non risulti, per taluni trattamenti, degradante.

Ultimo problema, scaturente da un impostazione costituzionale del tema dei trattamenti sanitari, può essere quello di chiedersi se esiste accanto al diritto a curarsi anche eventualmente un dovere di curarsi.

All’inizio di questo capitolo ci si chiedeva se non è possibile rinvenire, in una qualche norma, dei principi di liceità per quei trattamenti limite nei quali si interviene contro la volontà dell’avente diritto e a fronte di un obiettiva necessità. Questa domanda ha portato taluni alla conclusione che esiste un diritto di disporre del proprio corpo in quanto aspetto del più generale principio di autodeterminazione; ma si sa che accanto ai diritti costituzionali esistono doveri; segnatamente doveri di solidarietà come contrappeso rispetto alla dialettica del principio personalistico.

E allora si è ragionato: se esistono dei doveri di solidarietà, della persona in quanto cittadino, verso gli altri consociati esisterà un dovere di curarsi tale da rendere lecite talune imposizioni in ordine ai trattamenti sanitari? Si è ritenuto da parte di alcuni autori di rinvenire in alcuni doveri costituzionalmente previsti (artt. 2, 4, 32, 52) una indisponibilità del proprio corpo come corollario e logica premessa dei doveri ivi previsti.

E’ necessaria però una premessa che già basterebbe a fugare ogni dubbio sulla configurabilità di eventuali doveri in ordine alla salute; è il fatto che solitamente la dottrina e la giurisprudenza costituzionale ritiene che la classificazione dei doveri di rango costituzionali deve essere tassativa e riservata alla legge.

Invece si è altrimenti ritenuto che, in presenza di doveri costituzionalmente previsti,(che non riguardino direttamente la salute) di estenderne la cogenza al punto tale da farci rientrare anche un eventuale dovere alla salute.

Si dice infatti che se esiste il principio della tutela della salute come interesse della collettività allora deve esistere un dovere di curarsi, che se esiste il dovere al lavoro esiste pure un dovere di mantenersi integri ed in salute come presupposto per poter successivamente lavorare. E così via dicendo per il dovere di difendere la patria. Doveri così configurati comporterebbero il necessario corollario di impostare anche eticamente la propria vita in ordine a scelte importanti; si aprirebbe la via ad intrusioni da parte dello Stato in sfere ad esso oggi interdette. Saremmo insomma in presenza di uno Stato etico, autoritario e paternalistico; il ché oltre che offendere la dignità della persona umana viòla i più elementari diritti di libertà della persona. E rispetto all’obiezione che le norme costituzionali che impongono doveri sociali prevalgono sugli interessi dell’individuo si risponde: tale regola non vale per il diritto alla salute il quale prevale sugli interessi della collettività se per soddisfarli è previsto il sacrificio del singolo.

Si è quindi obiettato, a maggioranza di dottrina, che tali doveri di solidarietà previsti dalle norme costituzionali ( dovere di lavorare, di servire la patria ecc.) impongono un dovere morale e sociale alla salute e non un dovere assoluto: l’obbligo a subire trattamenti sanitari richiederebbe un rinvio al legislatore ordinario nel rispetto dei vincoli previsti dall’art. 32 Cost.. Si è quindi a maggioranza di dottrina escluso un generico dovere alla salute tale da consentire interventi anche in assenza di specifiche leggi.

2) Trattamenti sanitari e consenso

Nel paragrafo precedente si è cercato di tracciare un profilo costituzionale dei trattamenti sanitari; nel presente si cercherà di affrontare il problema relativo al consenso in una prospettiva costituzionale.

Abbiamo visto come la regola principale sia quella secondo la quale i trattamenti sanitari siano di norma volontari quelli obbligatori l’eccezione.. Ora se è pacifico che i dettami contenuti nell’art. 32 Cost. sono rivolti al legislatore ordinario non è possibile pensare che un privato cittadino, per quanto medico, possa ignorarli nei suoi rapporti con gli altri consociati. Non è possibile pensare che le regole costituzionali in ordine ai principi di libertà valgano solo come garanzia di tutela rispetto ad aggressioni che vengono da organi dello Stato e non anche da privati cittadini. Ed essendo pacifico che le norme contenute nell’art. 32 hanno valore immediatamente precettivo per tutti i consociati necessariamente esse medesime devono influenzare il rapporto medico-paziente.

Detto questo la regola principale sarebbe che solo in presenza dell’esecuzione di un trattamento sanitario obbligatorio per legge il medico può prescindere dal consenso del paziente( salvo la sussistenza dello stato di necessità con tutti i limiti applicativi che abbiamo visto). Il diverso problema dell’intervento coattivo(quindi ovviamente in presenza di dissenso e opposizione fisica) verrà affrontato in un paragrafo successivo; qui è solo possibile anticipare che la previsione in legge del determinato trattamento che si pone in essere libera il medico dalla necessità di procurarsi il consenso..

Si è posto il problema di verificare se il consenso al trattamento validamente prestato in ordine ad un trattamento sanitario incontra i limiti di cui all'art. 5 del c.c. Si ritiene in dottrina costituzionale che i limiti contenuti nell’art.5 c.c. non sarebbero validi rispetto alla tutela del diritto alla salute garantito dall’art.32 Cost. e rispetto alle garanzie di libertà assicurate dalla Costituzione. Rispetto alla salute si osserva che essa sussiste anche in presenza di diminuzioni necessarie del proprio corpo e che nel conflitto(ipotetico) fra diminuzione permanente dell’integrità del proprio corpo(vietata dall’art.5 c.c.) e tutela della salute(art.32 Cost.) prevale la seconda. Anche a fronte di un problema di gerarchia delle fonti l’art. 5 c.c. deve cedere il passo di fronte ad una regola di rango costituzionale come l’art. 32. Inoltre sarebbe illogico, come già detto, che per tutelare l’integrità fisica come vuole l’art. 5 c.c. si facesse danno alla salute negando il diritto di curarsi attraverso necessarie mutilazioni. Rispetto ai diritti di libertà c’è da dire che il diritto a disporre della proprio corpo si considera espressione di un più generale diritto di libertà della persona e vale come "libertà da qualsiasi trattamento sanitario non imposto da legge conforme a Costituzione" e non può perciò esserci una norma ordinaria non conforme al dettato costituzionale, che non sia legge, che possa limitarlo.

Si è potuto concludere, perciò, che il consenso ai trattamenti sanitari rampolla direttamente dalle norme costituzionali ed in particolare l’artt. 13 e 32. Parrebbero in tal modo superati i problemi relativi all’estensione dei limiti contenuti nell’art. 5 c.c. in ambito penale o dei limiti taciti ai divieti della norma in parola, come la consuetudine per il Riz.

Ancora con riguardo all’art. 5 c.c. si è ritenuto di individuare, in una interpretazione in negativo della norma medesima, dei doveri a mantenere l’integrità fisica. Si ragiona: posto che sono vietati gli atti di disposizione del proprio corpo che diminuiscono in maniera permanente l’integrità fisica(o quando sono contrari all’ordine pubblico o alle regole del buon costume) devono anche essere vietate le omissioni(di cure) che conducono, eziologicamente, allo stesso risultato. Da qui l’introduzione di un obbligo di cura. La tesi in questione è stata confutata con varie argomentazioni fra le quali; il contrasto con la lettera della disposizione e l’intenzione del legislatore che mirava ad escludere gli atti di lesione per mano altrui(e secondo autorevoli interpretazioni dalla norma non sarebbero esclusi atti di autolesione).

Ma l’argomento principale contro tale impostazione l’offre lo stesso art. 32 Cost. che impone la riserva di legge(come minimo) ai trattamenti sanitari e tale riserva non è assicurata dall’art. 5 c.c. che se può dirsi essere norma di legge non è certo quella legge che legittima l’obbligo a sottoporsi ad un determinato trattamento. Si deve necessariamente concludere che solo una legge dello Stato, che determini in maniera puntuale a quale trattamento deve sottoporsi il consociato, può autorizzare(o imporre al) il medico a ignorare il dissenso del paziente validamente espresso.

Su quest’ultimo punto aggiungono altri autori, diversificandosi su alcuni punti, "salvo lo stato di necessità". La domanda si pone in questi termini: davanti al dissenso del paziente, informato rispetto alle condizioni di salute e ai rischi che corre per il caso di omissione volontaria delle cure, può il medico intervenire ugualmente? E quindi contro la volontà del paziente? Si vuole precisare che si tratta di dissenso attuale; cioè espresso dal paziente ancora lucido e capace di farlo. Nel caso in cui il medico ritenga di intervenire con quale strumento, giuridico, può farlo? Il ricorso al consenso presunto? Lo stato di necessità? Il ricorso al giudice tutelare? Posto che il paziente sia maggiorenne quale valore può avere il ricorso al consenso dei parenti e quindi all’eventuale consenso informato sottoscritto da loro?

Sappiamo poi che diverso è il caso del paziente che giunge all’osservazione del medico già non in grado di esprimere valido consenso ma da fatti precedenti, in ordine alla dinamica che ha prodotto la lesione(ad esempio suicidaria), si può desumere facilmente qual è la determinazione del paziente medesimo per quanto riguarda la propria persona. Anche qui c’è da chiedersi qual è l’intervento che il medico può legittimamente porre in essere per superare, come per il caso precedente, la diversa determinazione del paziente che, si può supporre, quando ha posto in essere l’atto suicidario era cosciente.

Un ultima domanda da farsi è ancora la seguente: in tutti questi casi il medico che interviene conto la volontà del paziente pone in essere un trattamento sanitario obbligatorio(o coattivo) o siamo davanti ad una fattispecie diversa?

Se nel caso di valido dissenso attuale alle cure, urgenti o necessarie, si è davanti ad un paziente maggiorenne e naturalmente capace(e perciò fra l’altro il consenso è valido) si ritiene, in dottrina, privo di fondamento il ricorso al consenso dei parenti o dei famigliari che pure trova riscontro in giurisprudenza. Si sostiene in dottrina che i parenti non avrebbero nessun titolo per sostituirsi al paziente, già quando è incosciente, meno che mai quando è dissenziente; non c’è fra loro un rapporto giuridico che consenta tale sostituzione di volontà. Opportunamente, ritiene il Barni con altri, che in caso di incapacità a consentire il trattamento dipende soltanto dalla determinazione scientifica del medico ed il ricorso ai parenti trova ragione nel fatto di meglio consentire al medico di farsi un quadro completo della situazione complessiva del paziente per orientarsi in ordine a due o più trattamenti alternativi. Ragionando a fortiori, sarebbe logico concludere che estraneo al diritto è il ricorso al consenso dei parenti a fronte del paziente che validamente dissente.

Per quanto attiene al ricorso al giudice tutelare per i casi di pazienti che dissentono al trattamento anche qui diversificata è la posizione della dottrina e della giurisprudenza. Tuttavia, quando vi è intervento della magistratura, il giudice non rimuove l’ostacolo del dissenso sostituendo la propria volontà a quella del paziente(che non potrebbe) semmai autorizza l’intervento del medico richiamandosi a principi generali del diritto o a precise regole che fanno scattare la doverosità dell’intervento del medico. Di questi interventi della magistratura sono paradigmatici i casi del Testimone di Geova che volontariamente rifiuta la trasfusione ematica(e qui si osserva che non rifiuta il trattamento ma un certo tipo di trattamento) o del recluso(o libero) che coscientemente rifiuta di alimentarsi. Rispetto al primo caso, cioè quello del paziente che per motivi religiosi rifiuta l’emotrasfusione, c’è abbondante giurisprudenza e bisogna dire che è il caso tipico ove il medico pone in essere quel modello relazionale con il paziente definito medicina difensiva: cioè a dire tutta quella serie di atti medici( nel senso di trattamenti o meno) posti in essere non eziologicamente ricollegati alla patologia ma, anche, alla prospettazione di una, eventuale, difesa giudiziaria. Da qui, fra l’altro, il ricorso pressoché costante alla magistratura, nella figura del Pretore. Come già detto mai il giudice sostituisce la propria volontà a quella del paziente semmai, se è il caso, prende un provvedimento, ex art 700 c.p.c., che autorizza il medico a prescindere dal consenso ed a intervenire; che è come dire che obbliga il paziente a subire il trattamento senza, qui il punto che ci riguarda, poter invocare l’art. 32 Cost. che come sappiamo richiede la riserva di legge per i trattamenti sanitari obbligatori. Ritengono i Pretori di Pescara e Modica, con argomentazioni diverse, che il medico ha il diritto-dovere di intervenire e che a nessun titolo il paziente può impedire al medico di attuare il suo diritto ad esercitare la professione(almeno fintantoché il paziente rimane ricoverato in ospedale).

Da qui l’obbligo, per il paziente, di astenersi da pratiche tendenti a limitare il diritto del medico a scegliere le cure che secondo scienza e coscienza egli ritiene appropriate alla situazione di pericolo, per la salute, che il paziente corre. E dall’altro lato l’obbligo per il medico di intervenire anche contro la volontà del paziente che scaturisce da norme come quelle di cui all’art. 328 o 593 del c.p. o dalla combinazione dell’art.40 cpv. c.p. con le norme di parte speciale(per la ben nota posizione di garanzia). Già altrove e per bocca di autorevoli Autori è stata criticata tale impostazione; qui soltanto si osserva che in questo modo verrebbero ad essere introdotti trattamenti sanitari obbligatori surrettiziamente in violazione delle disposizioni dell’art. 32 Cost. Con altri e ben autorevoli autori si può dire che esiste un diritto a rifiutare le cure, a non curarsi e perfino a lasciarsi morire. Questo diritto troverebbe conferma a livello di norme costituzionali come massima espressione del diritto di libertà della persona; libertà giuridica in senso negativo cioè come pretesa che altri si astengano da impedimenti a un proprio fare.

Anche se l’autore citato in nota sembra non accogliere la tesi dell’esistenza del diritto a morire come espressione di libertà, (proprio, per come già detto, per il fatto che la libertà esisterebbe solo finché non si pongano in essere atti che rendono irreversibile la scelta di consumare il diritto stesso: infatti scegliere "liberamente" di farsi schiavi o morire non consente di fare ulteriori scelte di libertà) pare utile l’idea del diritto di libertà negativa per affermare che è esercizio di libertà pretendere che altri si astengano da impedimenti al proprio fare quando quest’ultimo non impedisce a sua volta un fare altrui. Lasciarsi morire attraverso il rifiuto di un trattamento sanitario, a parte la sensibilità etica, non pare impedire l’esercizio di un diritto altrui. Per questo a fronte di un valido dissenso alle cure è fatto obbligo al medico di astenersi dal suo intervento non voluto. Di questo avviso sembra essere la giurisprudenza più recente che con il famoso "caso Massimo" sembra aver cambiato corso rispetto ad altri indirizzi attuali, per ciò basta confrontare alcuni passaggi dell’ordinanza del Pretore di Modica con quelli della motivazione della corte d’Assise di Firenze rispetto all’appena citato caso Massimo:

"Nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute ed integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alla estreme conseguenze…" così i giudici della Corte d’Assise di Firenze sul giudizio per il caso Massimo; così invece il Pretore di Modica " (..) Accade così che il dettato costituzionale, nato dalla sacrosanta esigenza di evitare illecite interferenze, da parte dei pubblici poteri, nella sfera del singolo, sia stato incongruamente interpretato come una sorta di Magna Charta degli autolesionisti" e poi ancora "Il rifiuto della terapia trasfusionale…non sarebbe stato un atto di volontà legittimo, ma , viceversa, un vero e proprio atto di coartazione nei confronti del ricorrente"(leggi il medico). I giudici di Firenze( si nota che si tratta di sentenza confermata in Cassazione) sembrano aver tenuto una linea di giudizio rispettosa dei diritti del paziente e non di quelli del medico come invece pare aver fatto il Pretore di Modica.

Per tornare al punto in questione si può, pare, concludere che in presenza di valido, ed in quanto tale informato, dissenso alle cure non valgono le regole che consentono il ricorso alle scriminanti codificate(stato di necessità, esercizio di un diritto, adempimento di un dovere) proprio per il valore supremo che assume la libera determinazione di se. Quindi piena, anche se dolorosa rispetto al naturale istinto di solidarietà che ci porta irrefrenabilmente a soccorrere, validità dell’antico broccardo " Voluntas aegroti suprema lex esto".

Rispettato il dissenso del paziente, come vuole la Costituzione(artt.13,32) e fra l’altro come conferma il nuovo codice di deontologia medica, anche in situazioni di pericolo di vita, vi è da chiedersi quale può essere la situazione del paziente che non può esprimere un valido consenso( né dissenso) nelle medesime situazioni di pericolo.

Va subito detto che la figura del paziente incapace a consentire è quanto mai varia in specie per l’esistenza di almeno tre figure di incapacità di intendere e di volere: una prima si ha sicuramente nel caso di incoscienza nel senso medico della parola… cioè di persona priva di sensi( che sia o appaia priva di sensi art. 593 2°); un secondo caso può essere(con tutte le riserve che verranno sciolte successivamente) quello del malato di mente.. nella figura dell’incapace naturale; una terza quella del minore di età e dell’interdetto( sembra potersi escludere a questi fini la figura dell’inabilitato). Come si avverte sono situazioni diverse in cui possono trovarsi persone chiamate ad esprimersi in ordine a propri diritti importanti come quello alla salute.

Diversa ancora è la situazione di quei pazienti che prima di cadere in stato di incoscienza erano capaci ed hanno avuto contatti con il medico; è il caso dell’incapacità prevista ( testimone di Geova già ricoverato che sa che il rifiuto delle trasfusioni lo porterà ad incoscienza) o programmata(intervento chirurgico mediante narcoanestesia). Tutte le situazioni sopra prospettate appaiono comunque accomunate dal fatto dell’incapacità a consentire e perciò si tratta di vedere a chi deve "passare la palla" della decisione: se al medico, pur nella legittima aspettativa che non sostituisca la propria volontà a quella del paziente ma che si limiti a scegliere, funzionalmente, secondo scienza o, ove esistenti ai legittimi "rappresentanti".

Appare assodato che se non c’è contrasto fra le proposte del medico e i bisogni del minore decidono i genitori(o il tutore). Problemi sorgono se vi è contrasto interno fra i genitori(o tutori) e medico o fra genitori concordemente(o eventualmente fra tutori) e medico. In tal caso sembra pacifico che il problema posa risolversi all’interno della disciplina della potestà dei genitori. In particolare sembra applicabile, da parte del giudice l’art. 333 del c.c.(condotta del genitore pregiudizievole ai figli) per limitare l’intervento del giudice al caso del trattamento discusso. Ciò perché appare assodato che l’istituto della potestà dei genitori debba inquadrarsi non nella rappresentanza ma nell’esercizio di un potere esercitato iure proprio finalizzato all’interesse dei figli. Potere che tuttavia incontra dei limiti tanto nella Costituzione(art.30) quanto nelle leggi ordinarie sia nel c.c.(147,316,321 ecc.) che nel c.p.(570,573,574). Pertanto il diritto del genitore non esclude il controllo dello Stato a tutela dell’interesse del minore; da qui la legittimazione del giudice di intervenire ex art.333 c.c. nel caso di condotta pregiudizievole dei genitori nei confronti dei minori. Quindi un potere-dovere che essendo finalizzato all’interesse del minore necessariamente prevede meccanismi atti a disinnescare eventuali arbitri dei genitori nei confronti del minore. Analogicamente debbono risolversi i problemi nel caso di presenza di un tutore sia riguardo ad un minore che ad un interdetto.

Minori problemi presenta il caso del maggiore di età momentaneamente incapace di validamente consentire, o dissentire, al trattamento perché incosciente(privo di sensi). Si pone, prioritariamente, la necessità, di accertare se l’incoscienza si stata prevista o programmata. In realtà in questa circostanza il requisito dell’attualità del consenso, se deve valere anche per il dissenso, appare essere di ostacolo. Infatti per poter operare il principio del consenso al trattamento occorre che anche il dissenso sia attuale; cioè esistente, al momento dell’esecuzione del trattamento. Ma se nessuno contesta il fatto che il consenso non viene meno, sotto il profilo dell’attualità, quando il paziente si trova in sala operatoria per un intervento chirurgico in anestesia totale, allo stesso modo non dovrebbe mettersi in discussione l’attualità del dissenso al trattamento dato prima in previsione o in programmazione del trattamento.

Per cui diverso è il caso del paziente che, a seguito del prolungato rifiuto di cure, esita ad uno stato di incoscienza previsto e rientrato nella rappresentazione degli eventi che gli è stata fatta dal medico nel fornire le informazioni necessarie per la validità del consenso, da quello del paziente che si trova, perfetto sconosciuto, davanti al medico impegnato a soccorrerlo.

In quest’ultimo caso sembra giusto, ricorrendone i requisiti, il ricorso allo stato di necessità, nel prestare le prime cure in attesa che il paziente possa validamente consentire. La sostituzione del medico, della sua conoscenza scientifica, rispetto a quella dei parenti o del giudice sembra più opportuna se si guarda al bene in gioco. Mi sembra lecito ritenere che in casi del genere, di incapacità improvvisa a consentire ad un trattamento sanitario necessario per la salute più sicuro l’intervento del medico rispetto affidarsi a persone sconosciute quali un giudice o a parenti che decidono attraverso un improbabile negotiorum gestio in vece di versa in pericolo di vita.

Residua l’ultimo caso del paziente incapace a consentire perché malato di mente rispetto al quale, va detto, che il suo dissenso viene regolarmente ritenuto invalido; con la conseguenza di passare tutto il potere-dovere delle decisioni relative ad altra persona (che di regola è il medico). Ora non v’è chi non avverta che la condizione del malato di mente non è uniforme, non è un tutt’uno definibile una volta per tutte. Presenta tipologie di malattie mentali variamente definibili, e non solo a fini descrittori; a seconda della scuola di pensiero seguita dallo psichiatra i sintomi che assistono la malattia acquistano significato diverso in ordine alla necessità di cure e alla tipologia terapeutica.

Non è senza significato che non v’è unanimità di consenso rispetto al tipo d’intervento terapeutico a fronte del medesimo disturbo(anche quando viene fatta la diagnosi secondo il criterio del DSM IV). Posto ciò rimane d’aggiungere che vi è differenza ancora, riguardo al malato mentale, rispetto ad una incapacità a comprendere la gravità di una malattia "fisica" e l’incoscienza di malattia mentale che per definizione accompagna le psicosi.

Questa premessa, accompagnata alla nota influenza che ha avuto nel passato(e che forse ha ancora) il pensiero politico filosofico nell’impostazione delle scuole di pensiero psichiatrico e l’uso che della psichiatria ha storicamente fatto il "potere", alimenta tutte le perplessità attorno alla possibilità di impostare oggettivamente criteri di valutazione della capacità d’intendere e di volere.

Per concludere sul punto si può dire che la varietà dell’universo della malattia psichiatrica consente, in maniera relativamente facile, di sovrapporre fin quasi ad annullarli i diversi concetti del consenso mancante e del dissenso. Rispetto al malato di mente decide lo psichiatra se il rifiuto delle cure è tale o è invece incapacità a consentire; con le conseguenze, rispetto alla legittimità degli atti successivamente posti in essere, che già conosciamo.

In particolare: se il consenso manca occorre che vi siano i requisiti per invocare lo stato di necessità; se la medesima situazione viene ritenuta come integrante un valido rifiuto varrebbe il ricorso al t.s.o. di cui agli artt. 34,35 della L.833 del 23/12/78. Si dice "varrebbe" perché non manca chi sostiene che anche a fronte del rifiuto delle cure e nelle more dell’espletamento delle procedure per il t.s.o.(se sussistono le condizioni d’urgenza per lo stato di necessità) si può trattenere, anche fisicamente, il paziente. Mi pare di poter concludere anche sul punto del consenso del paziente psichiatrico, visto in una prospettiva psichiatrica, che vi è una sfasatura fra l’aspetto formale della legge che non fa nessuna distinzione fra tipologie di pazienti e la sua effettività che di fatto introduce rilevanti differenze per quanto riguarda lo status del malato di mente.

3. Trattamenti sanitari obbligatori e coattivi

Si è ripetutamente detto che il legislatore costituzionale ha inteso impostare i trattamenti sanitari di norma come volontari salvo l’eccezione dei trattamenti sanitari obbligatori. Per definizione la norma costituzionale di riferimento per ciò che riguarda i trattamenti sanitari è l’art. 32 Cost. che così recita: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana."

I principi contenuti nella norma appena riportata sono stati sostanzialmente, e doverosamente, confermati dall’art.33 della L. 833/78

"Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato, possono essere disposti dall’autorità accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l’art.32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e di diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta dl medico e del luogo di cura." Emerge dal dettato costituzionale e dall’art. 33( o 1 della L. 180 nella sostanza trasfuso nell’art.33)L.833 che nei casi previsti dalla legge possono essere disposti obblighi a subire trattamenti e accertamenti. Sembrerebbe potersi interpretare il combinato disposto normativo appena riportato nel senso di un obbligo di subire un determinato trattamento e non un obbligo di fare; così per escludere, con altri, un presunto dovere di curarsi desumibile dall’art. 32 Cost.. Inoltre si desume che l’obbligo riguarda appunto un trattamento(e/o accertamento) e non un obbligo di cura.

Ed è infatti vero che il legislatore, quando ha previsto trattamenti obbligatori, lo ha fatto determinando un certo trattamento che i portatori potenziali(è il caso delle vaccinazioni) o attuali(per la malattia mentale o infettiva) di certe patologie sono chiamati, eventualmente, a subire nell’interesse della propria salute e di quella della collettività. L’interesse alle cure deve sussistere per entrambi i soggetti della diade, singolo e collettività, e non è consentita la disgiuntiva. A molti autori è ulteriormente parso che il riferimento al rispetto della dignità della persona umana consenta la prevalenza dell’interesse del singolo a fronte di trattamenti non rispettosi del principio in parola. E anche l’eventuale coercività del trattamento medesimo urterebbe contro la dignità della persona umana, quest’ultima intesa in senso soggettivo e non già oggettivo(cioè non persona astratta come figura paradigmatica ma persona soggetto vero e vivente).

Richiamato succintamente tutto ciò il problema che si pone adesso è quello di verificare se esistono trattamenti sanitari che possono qualificarsi come solo obbligatori ed altri che sono anche coattivi. Per i trattamenti sanitari coattivi c’è da chiedersi se nella loro esecuzione abbisognano di ulteriori rinforzi Costituzionali(tipo riserva giurisdizionali) o se basta la sola previsione di legge del trattamento medesimo.

Tutto il problema sembra ruotare attorno all’esatto significato del concetto di privazione di libertà; cioè se essa viene attinta anche solo dalle sanzioni indirette previste per l’omissione dell’obbligo a sottomettersi al trattamento o se è necessaria una esecuzione in forma specifica del trattamento anche vincendo le resistenze fisiche opposte. Altro problema è quello di sapere se nel caso di trattamento coattivo opera anche l’art. 13 della Costituzione che per gli atti privativi della libertà posti in essere da organi dello stato richiede oltre alla riserva assoluta di legge anche la riserva giurisdizionale dell’atto motivato del giudice.

In dottrina si ritiene superata la teoria secondo la quale le garanzie dell’art. 13 opererebbero solo per quegli atti privativi della libertà che contengono un giudizio di disvalore rispetto alla persona che li subisce, (così non sarebbe nei casi di trattamenti sanitari coattivi che invece tendono alla tutela della salute). Contro tale opinione si obietta che la libertà personale anziché essere ancorata, com’è, ad un dato incontrovertibile qual è la coercizione fisica, verrebbe ad essere riconosciuta o meno sulla base di elementi opinabili come il giudizio sul disvalore dell’atto impeditivo in se.

Per tentare una conclusione sul punto si può dire che sono anche coattivi quei trattamenti sanitari obbligatori che necessitano per l’esecuzione dell’uso della forza per vincere l’eventuale resistenza del paziente; e poiché tutte le imposizioni che contemplano l’uso della forza riguardano il diritto di libertà della persona ecco che possono essere legittimamente attuate solo nel rispetto dell’art.13 Cost.. E per ciò che attiene il diritto alla salute non è pensabile "che possa essere invocato l’art.32 Cost. per derogare, per motivi di salute, alla portata e alle garanzie di cui all’art.13(….) nell’art. 32 non possono trovare fondamento o giustificazione restrizioni addirittura coercitive". Quindi, a nessuno è concesso porre in essere trattamenti sanitari coercitivi se non quando siano previsti da legge con il rinforzo del provvedimento motivato del giudice. Doppia riserva, dunque; di legge ex art.32 Cost. e giudiziaria ex art. 13 Cost.

Queste succinte note misurano per intero il disvalore dell’atto della contenzione a letto del malato di mente o dell’anziano, a fronte di ragioni fondate su mere "opportunità". I casi di ordinaria contenzione a letto avvengono in assenza di un provvedimento dell’autorità amministrativa(come vuole l’art. 33 della L. 833/78) e in assenza di un provvedimento motivato del giudice. E abbiamo appena visto come a maggioranza della dottrina si ritiene privazione della libertà personale qualunque forma di coercizione fisica da chiunque esercitata su altra persona che diviene reato(eventualmente art.610 c.p.) in assenza della giustificazione dell’adempimento di un dovere che si ritiene esserci quando si attua un t.s.o. Per come detto all’inizio del presente lavoro, poi rimane da aggiungere che anche quando ci si trova di fronte all’esecuzione di un t.s.o., per come esso è stato "amministrativizzato", l’impiego della forza fisica esula dalle competenze(dall’impiego di mezzi tipici della professione) del medico e rientra tutto nelle competenze della Forza Pubblica.

In ordine all’essere i trattamenti sanitari obbligatori psichiatrici "anche" coattivi non c’è disaccordo in dottrina; semmai qualche perplessità rimane rispetto alla conformità costituzionale delle norme che li prevedono; artt. 33,34,35 L.833/78. Oltre alla questione che non si intravede il beneficio per la salute della collettività che abbiamo visto essere requisito necessario assieme a quello della persona sottoposta al trattamento come minimo per superare l’esame di costituzionalità per l’essere il trattamento "solo" obbligatorio; si osserva che il provvedimento di t.s.o. viene deciso dal Sindaco come autorità sanitaria, e non giudiziaria. E l’intervento del giudice tutelare ha solo funzione di convalida o meno di un provvedimento che rimane amministrativo. Il procedimento che si apre a seguito del ricorso dello stesso paziente psichiatrico, che è di giurisdizione volontaria, non da la possibilità del ricorso per cassazione ex art.111 Cost. pur trattandosi l’ordinanza di t.s.o.( in fatto) privativa della libertà. Come si è appena visto, affacciandosi dalla finestra dell’art.13 Cost. non sembrerebbe esserci spazio per le giustificazioni scriminanti rispetto ai trattamenti sanitari imposti con la forza; sia o meno considerato valido il dissenso: è indispensabile un provvedimento di un solo medico e del solo Sindaco ex art 33 L. 833/78(ove vi sarà una legge che dispone un certo trattamento) e di due medici, del Sindaco e la convalida del Giudice tutelare quando si è di fronte ad alterazioni mentali tali da essere trattati con urgenza e non è possibile farlo fuori dalla situazione di ricovero e vi è il rifiuto del paziente. Se riteniamo, come pare, che l’uso della forza fisica(pur se a fin di bene) finalizzato al trattamento psichiatrico integra quella coercizione per cui possiamo dire di essere di fronte ad un trattamento sanitario coattivo e se il legislatore più in alto in grado non ha previsto deroghe alla disciplina dei medesimi in assenza del procedimento sopra descritto si è di fronte ad un trattamento arbitrario.

4. Trattamenti sanitari obbligatori psichiatrici; cenni storici

Quella del folle, dell’ossesso, del deviato o, più modernamente, del malato di mente, è una figura di consociato che suscita senz’altro sentimenti contrastanti e mutevoli nel corso della storia. La capacità della comunità di convivere con il fenomeno del disturbo mentale che si manifesta attraverso l’emissione di comportamenti anomali è legata, fra l’altro, all’assetto socioeconomico che la stessa comunità esprime nel dato momento storico. Variabile perciò nel tempo e nello spazio; si va dalla piena integrazione dell’insano che attraverso il "morbus comitialis" nell’antica Roma poteva influenzare le votazioni nei comizi centuriati che venivano sospese se un cittadino presente agli stessi veniva colto da una crisi epilettica(ma poteva benissimo essere una crisi isterica o un altro malessere agito fisicamente) passando per il Medio Evo ove la malattia mentale veniva caricata di significati religiosi (follia come castigo divino per comportamenti immorali tenuti dallo stesso folle o dalla comunità di riferimento) per giungere a tempi relativamente recenti ove la follia assume in maniera più decisa il carattere di malattia in senso scientifico del termine. I tempi della follia come malattia sono quelli di fine secolo scorso, economicamente definibili di industrializzazione. Inizialmente la malattia mentale non ha ancora il carattere propriamente mentale, semmai la si ritiene malattia del cervello in quanto organo. Successivamente, anche ad opera della neonata psicoanalisi, la neuropsichiatria si orienta anche su indagini di tipo dinamico-funzionale; cioè la malattia non solo come alterazione organica del cervello ma disfunzione della mente. Concetti come inconscio, preconscio, coscienza, Es, Io, super-Io entrano nel linguaggio comune non solo agli psichiatri. La malattia di mente, può, essere considerata anche il risultato di conflitti fra istanze che vengono dall’super-Io( come istanza morale risultato dell’introiezione del padre) e istanze che vengono dall’es( nel luogo dell’inconscio) che assieme contrastandosi comprimono l'Io(nel luogo della coscienza); il tutto, secondo Freud, animato dall’energia libidica, dal complesso Edipico ecc.. Altra scuola psichiatrica è quella che considera la malattia mentale il risultato di una impossibile integrazione sociale; il conflitto sociale fra classi che si presenta sotto forma, inconscia, di malattia mentale. Altri indirizzi vi sono stati, ma questo non è il luogo per parlarne né il sottoscritto è abilitato a farlo.

Quanto in estrema sintesi si è detto è solo per misurare l’evoluzione legislativa che della malattia mentale si è occupata, e ciò all’interno di una diade fra comprensione scientifica del disturbo e istanze sociali variabilmente fatte di recupero del malato al contesto sociale(pur con i rischi di eterointegrazione) e di espulsione vera e propria.

Sul punto dell’espulsione si vuol partire per considerare la legislazione psichiatrica a partire dall’inizio del secolo presente.

La prima legge che regolamenta la materia della malattia mentale coerentemente con un disegno politico ben definito è la L. 36 del 14/02/1904 sui manicomi e sugli alienati integrata dal regolamento del 16/8/1909. La successiva, detta legge stralcio Mariotti, è del 18/03/1968 N° 431 e dieci anni dopo veniva approvata la successiva "legge stralcio" del 13/05/1978 N° 180(detta 180) che poi venne incorporata nella L. 833 del 23/12/78 detta di riforma sanitaria e che è tuttora vigente pur integrata dai Piani obiettivo di salute mentale che quadriennalmente vengono posti in essere dal governo(ultimo il recentissimo piano per il 1998-2000).

Per quanto attiene al tema in tesi, cioè la liceità degli atti coercitivi nel trattamento sanitario psichiatrico, è utile fare una rapida analisi della situazione del malato di mente(alienato mentale) nel 1904.

Indubbiamente c'è concordia piena nel ritenere che il ricovero previsto dalla legge del 1904 aveva carattere custodialistico posto che su tutta la legge pesava fortemente la concezione positivistica della malattia mentale come dato naturale, incurabile, inarrestabile. Non rimaneva perciò che internare siffatte persone quando risultassero pericolose a se o agli altri o altrimenti di pubblico scandalo e non potevano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. L’ammissione doveva essere chiesta dai parenti, tutori o protutori e poteva da chiunque altro nell’interesse dell’infermo e della società.

Lo stesso ricovero in manicomio veniva autorizzato in via provvisoria dal Pretore sulla base della presentazione di un certificato medico e di un atto di notorietà e successivamente(dopo un periodo di osservazione non superiore ad un mese) in maniera definitiva dal Tribunale su istanza del pubblico ministero in base alla relazione del direttore dell’ospedale psichiatrico. Ma la via più seguita era quella "urgente" mediante la quale anche l’autorità di pubblica sicurezza, in base ad un certificato medico(e ricorrenti i presupposti di pericolosità o pubblico scandalo) poteva ordinare il ricovero ma riferire entro tre giorni al procuratore del Re; seguiva poi il provvedimento definitivo del Tribunale. Veniva con il provvedimento del Tribunale nominato un rappresentante legale per l’alienato. Quest’ultimo atto era considerato una dichiarazione di incapacità legale del ricoverato; inoltre lo stesso provvedimento definitivo veniva iscritto nel casellario giudiziale… marchiando in tal modo in maniera irreparabile l’eventuale, e a dire il vero raro, paziente che riusciva ad essere dimesso dal manicomio. La dimissione, o licenziamento, avveniva su richiesta delle stesse persone che potevano chiedere il ricovero(si nota che fra quelle non vi era il paziente), dal direttore del manicomio o dalla deputazione provinciale con decreto pronunciato dal presidente del Tribunale( sempre comunque era sentito il direttore).

Come si è appena visto, totalmente estraneo, tanto al ricovero quanto alla stessa dimissione,(in quanto guarito) era il malato. Si nota ancora, che di norma, il ricovero in manicomio a scopo di cura non poteva avvenire neanche volontariamente ma solo attraverso il passaggio del certificato medico, della pericolosità o pubblico scandalo, e dell’atto del Tribunale. Eccezionalmente, a dire il vero, poteva avvenire il ricovero volontario di maggiorenni in manicomio ma per casi di estrema urgenza e sotto la responsabilità del direttore; con obbligo di riferire poi al procuratore del Re entro ventiquattro ore dall’inizio dell’osservazione. Anche se la legge dichiarava propositi di cura e interessi degli infermi oltre che della società è innegabile la prevalenza del carattere di custodia del ricovero in manicomio. Ne è conferma la serie di norme contenute nel codice penale(successivo alla legge del 1904) contenute nel paragrafo sei intitolato "Delle contravvenzioni concernenti la custodia di alienati di mente, di minori o di persone detenute." In tale paragrafo erano contenute norme(abrogate "solo" dalla L.180 del 13/5/1978) che punivano l’omesso avviso all’Autorità di fuga dell’alienato di mente dal manicomio( art. 716 c.p. ante modifica della L.180) o addirittura "Omessa denuncia di malattie di mente o di gravi infermità psichiche pericolose"(art.717 c.p. abrogato dalla L.180)"

Anche le norme contenute nel regolamento applicativo del 1909 non facevano che rimarcare l’accento di pena del ricovero: era prevista la "dichiarata" eccezionalità del ricorso degli strumenti di contenzione: ma è dato di sapere che in realtà era consuetudine ricorrere a tali strumenti. Il fine, non dichiarato, di isolare persone disturbanti era abbastanza evidente. Il modello socioeconomico adottato, la necessità di una rapida urbanizzazione e una diversa concezione del tempo(come elemento di produzione) richiedeva una rapida espulsione di elementi sociali disturbanti, e ciò a prescindere dalla commissione di fatti di reato.

Questa situazione, che passò accentuandosi nell’era fascista, rimase tale e quale, fino al 1968 quando venne approvata la legge stralcio Mariotti (431 del 18/03/68). Stralcio rispetto ad una riforma sanitaria che sarebbe avvenuta dieci anni dopo, la L.431/68, introdusse per la prima volta il ricovero volontario presso i manicomi per accertamenti e cure; ricovero che può avvenire per atto del medico di guardia(e non più come per quelli d’autorità da direttore del manicomio). La medesima legge all’art. 3 introduce i Centri d’Igiene Mentale( CIM) che rappresentano la prima, timida, via di mezzo fra il manicomio, come luogo di espulsione sociale, e la società medesima come luogo di sviluppo della personalità inteso costituzionalmente come espressione del diritto di libertà della persona. La persona affetta da turbe mentali comincia ad essere considerata davvero cittadino, malato, nel pieno diritto di rivendicare il diritto alla salute che la Costituzione riconosce ai cittadini "normali".

Ma la L. 36 del 1904 rimaneva in vigore soprattutto negli aspetti più deteriori: ricovero coatto con significato di custodia, iscrizione nel casellario giudiziario, perdita sostanziale della capacità di agire, condizioni di vita disumana all’interno del manicomio. Il tutto passato pressoché indenne alla introduzione della Costituzione, come testimoniano numerose pronunce della Corte Costituzionale.

Appariva a molti evidente che fosse venuta l’ora di un intervento legislativo per adeguare la legge sui ricoveri psichiatrici alle nuove istanze di democrazia che da più parti s’avanzano. Così, specie in campo psichiatrico, anche ad opera di medici che si richiamavano alla cosiddetta antipsichiatria, vi fu un movimento di opinione che influenzò vasti settori politici e che portò, fra l’altro, alla proposta di un referendum popolare( promotore il partito radicale del 1978) per l’abolizione di alcuni articoli della legge 36 del 1904. Per scongiurare il "vuoto legislativo" nel maggio del 1978 venne approvata la legge 180 nota come la legge della chiusura dei manicomi. La stessa legge venne sostanzialmente incorporata nella L. 833 del 23/12/78 nota come di riforma sanitaria o di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

La riforma psichiatrica, letta all’interno della L.833, acquista un maggior significato proprio in previsione di tutto il riassetto della materia sanitaria. Tutta la materia contenuta nella legge 180 viene sostanzialmente riversata negli artt. 33,34,35 e 67 della nuova L 833/78 e ad essa a tutt’oggi bisogna fare riferimento. Il ricovero del malato di mente avviene, di norma, volontariamente e all’interno di speciali reparti(Presidi di Diagnosi e Cura) ubicati all’interno degli ospedali o ad essi comunque connessi. Tali reparti non possono avere più di 15 posti letto; si rifletta che ancora la L.431/68 prevedeva ospedali psichiatrici(manicomi) con non più di 5 divisioni di 125 posti letto ciascuna. L’eccezionalità è rappresentata dall’obbligatorietà del ricovero(artt.33,34,35) in casi predeterminati dalla stessa legge. Altre novità sono rappresentate da una maggior decisione verso la definizione dei servizi territoriali ( SIMAP), luogo di naturale presa in carico del paziente. In questo senso il ricovero rappresenta un eccezione ed è il risultato del fallimento dell’intervento sul territorio inteso come il luogo naturale di cura e dal paziente dal quale non deve essere sradicato.

Viene prestata peculiare attenzione al momento della prevenzione delle malattie mentali( si vedrà dopo come tale aspetto è particolarmente preso in considerazione dal Piano Obiettivo per la Salute Mentale 1998-2000) attraverso un interesse particolare per l’età evolutiva, per la riabilitazione ed il recupero nelle disabilità sociali( piani ergoterapici di inserimento al lavoro in cooperative sociali particolarmente sensibili al problema; inserimento in appartamenti autogestiti da pazienti con disturbi di lieve entità). Tutto questo, ed altro, non esisteva già il 23/12/1978; tuttavia è un fatto, che la legge, considerata da molti all’avanguardia in Europa, sia stata definita nei contenuti sopra descritti. Non si sia cioè limitata ad introdurre il pur "rivoluzionario" ricovero volontario del malato di mente ma ha disegnato per intero il profilo della tutela della salute mentale..

Rispetto all’art. 33 si è già detto nei paragrafi precedenti in questo si parlerà solo del trattamento sanitari obbligatorio per malattie mentali per come previsto dagli artt.34 e 35 della L.833/78. Tuttavia lo stesso art. 33 dovrà essere tenuto presente nella considerazione dei presupposti e nella esecuzione del trattamento psichiatrico medesimo, e quindi: rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici( in vigenza della L.36/904 si perdeva l’esercizio dei diritti politici); scelta del luogo di cura e del medico; iniziative volte alla ricerca del consenso e della partecipazione, anche in esecuzione di un trattamento sanitario obbligatorio; diritto di comunicare chi si ritenga opportuno.

Viene riconosciuto, ex art. 33, a chiunque, il diritto di rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento preso dal medesimo, anche se già convalidato dal Giudice tutelare, promuovendo un procedimento di riesame tecnico-amministrativo del provvedimento. I trattamenti sanitari obbligatori, psichiatrici e non, vengono disposti con provvedimento del sindaco.

In ordine ai trattamenti sanitari obbligatori per malattie mentali e per come previsti dall’art.34 della L.833/78 bisogna dire subito che l’art. in parola richiamandosi al precedente intende innovare rispetto al passato sottolineando come i trattamenti sanitari obbligatori non riguardino solo i malati di mente ma anche malati di altro genere, ed il trattamento obbligatorio dei malati di mente non si pone in rapporto di genere a specie ma semplicemente come uno dei trattamenti obbligatori. Tuttavia il trattamento medesimo ha una sua particolarità: quando deve effettuarsi in condizioni di degenza ospedaliera vengono richiesti necessariamente alcuni requisiti: esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, non accettazione degli interventi terapeutici da parte dell’infermo, inesistenza di condizioni che consentano di adottare tempestive e idonee misure extraospedaliere.

Se manca uno solo degli elementi appena elencati non si può porre in essere il t.s.o. in condizioni di degenza ospedaliera. Cioè a dire se il paziente affetto da alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici accetta le cure proposte non si potrebbe legittimamente porre in essere il t.s.o in condizioni di degenza ospedaliera bisognerebbe praticarlo fuori dal reparto ospedaliero utilizzando le strutture dipartimentali di cui il S.S.N. deve dotarsi.

Tutto ciò, però, oggi, nella prassi avviene solo per gli accertamenti sanitari obbligatori(a.s.o.) che vengono effettuati nel domicilio del paziente o nell’ambulatorio del servizio di salute mentale( SIMAP, SIM ecc.).

Ma qui un problema, che emerge, è già quello di valutare il consenso rispetto alle cure urgenti; non di rado esso viene, dallo psichiatra, considerato strumentale e non veritiero. L’accettazione delle cure può essere in buona sostanza un tentativo da parte del paziente(istruito dall’esperienza maturata negli anni) di sottrarsi all’ospedalizzazione e quindi alla privazione della libertà, per poi successivamente rendersi irreperibile. E ciò perché i servizi territoriali, anche per ragioni organizzative, non sono in grado di farsi carico di un paziente recalcitrante al trattamento. Il pericolo poi, a carico degli psichiatri, di vedersi coinvolti in procedimenti giudiziari li ha spinti a considerare, quasi sempre, rifiuto di cure l’accettazione che esprime il paziente; perché ritenuta affetta da riserva mentale.

Data l’urgente necessità di cure l’alternativa si pone, in via di fatto, fra ricovero volontario(con le restrizioni più volte accennate) o trattamento sanitario obbligatorio comunque in degenza ospedaliera. In ogni caso i trattamenti obbligatori in regime di ricovero devono essere attuati in speciali presìdi di diagnosi e cura situati presso gli ospedali generali.

Per ciò che attiene la procedura bisogna dire che il provvedimento del sindaco può essere preso solo a riscontro di un certificato medico debitamente motivato e su una convalida del certificato medesimo ad opera di un altro medico(dev’essere medico dell’unità sanitaria locale).

Perciò doppia e motivata valutazione medica. Fra la proposta, convalidata, del medico ed il provvedimento dl sindaco è previsto, in legge, il termine di 48 ore dalla richiesta. Si ritiene che nell’attesa del provvedimento del sindaco il medico che ha proposto il t.s.o. non abbia nessun titolo per trattenere il paziente in reparto o eventualmente per condurverlo. Nell’operatività pratica questo spazio vuoto intercorrente fra la richiesta del medico ed l’ordinanza del sindaco può creare dei problemi in quanto l’urgenza di cure in questione viene intesa dagli psichiatri come particolarmente stringente e tale da non consentire opportunamente il "rilascio" del paziente eventualmente già "trattenuto" in reparto o in ambulatorio(magari in applicazione di un a.s.o.). E’ questo senz’altro un punto oscuro della materia dei trattamenti sanitari obbligatori per i malati di mente e dove con una certa frequenza si possono verificare gli atti di coercizione oggetto della presente tesi. In tali casi è frequente l’invocazione dello stato di necessità o della posizione di garanzia.

Ma della concreta operatività dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. e dei limiti di applicazione dell’eventuale posizione di garanzia si è già detto altrove.

Successivamente, entro 48 ore, il provvedimento del sindaco deve essere notificato, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune nel cui territorio il t.s.o. deve essere eseguito. Sappiamo che il comune del sindaco che prende il provvedimento è quello di residenza del paziente o quello nel territorio del quale viene a essere effettuato il trattamento(con comunicazione in ogni caso al sindaco del comune di residenza dell’infermo, e , si ritiene, anche al giudice tutelare del luogo di residenza).

Nelle successive 48 ore il giudice tutelare(il pretore e dalla soppressione di tale ufficio il tribunale in composizione monocratica) convalida o meno il provvedimento del sindaco. Dalla mancata convalida discende per il sindaco, l’obbligo, di disporre l’immediata cessazione del trattamento in regime di degenza ospedaliera.

E’ previsto il ricorso al tribunale contro il provvedimento convalidato dal pretore. Legittimati a tale ricorso sono: chiunque vi abbia interesse e, novità di grandissimo rilievo, chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio; nel procedimento(di giurisdizione volontaria che così si apre) le parti possono stare senza ministero del difensore e farsi rappresentare da persona munita di mandato. Il ricorso può essere presentato anche con semplice raccomandata con ricevuta di ritorno. Il tutto posto che, l’infermo ha il diritto di comunicare con chi crede opportuno, che il trattamento deve essere attuato nel pieno rispetto della dignità della persona. Di regola il trattamento obbligatorio dovrebbe durare non più di sette giorni; tale durata è però rinnovabile su richiesta del solo medico responsabile del presidio di diagnosi e cura al sindaco, il quale ne informa il giudice tutelare. La stessa cosa capita quando si apportano modifiche al regime del ricovero; trasformazione da obbligatorio a volontario, o cessazione dei motivi che hanno determinato la necessità del ricovero e/o la dimissione.

Inoltre sono state abrogate quelle norme del codice penale che davano, nella vecchia legislazione,una marcata impronta custodialistica al ricovero dell’alienato di mente. Sono abrogate, espressamente o implicitamente, le norme contenute nella L.36 del 1904 e per incompatibilità l’intero regolamento esecutivo del 1909. Viene interamente ripristinata la capacità di elettorato attivo e passivo del malato di mente.

Conclusivamente si ha un quadro ove al centro vi è una persona malata che ha il diritto di curarsi e su un piano formale sembrerebbero ridondanti alcune affermazioni di principio circa il riconoscimento del diritto alla scelta del luogo di cura, del medico, del diritto a comunicare a rivolgere istanze al sindaco o ricorsi al giudice tutelare. La riforma del 1978 ha stabilito il principio dell’uguaglianza dei malati secondo la massima " a situazioni diverse trattamenti diversi" ma stessi diritti riconosciuti.

Per tornare al tema in tesi si deve dire che da tutta l’impostazione della materia dei trattamenti sanitari psichiatrici non sembrano potersi trarre argomenti a favore della legittimità dell’uso di strumenti di contenzione come invece era previsto nel regolamento della previgente legislazione ove era dato leggere "Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere utilizzati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’istituto. ".

E’ noto il fatto che la presunta eccezionalità dichiarata nella norma era nel corso degli anni divenuta regola e i buoni propositi, almeno di riduzione dei mezzi di coercizione, sono rimasti tali. E’ sintomatico di tale andazzo il fatto che nell’art. 77(d.p.r. 431 del 29/04/76) del regolamento esecutivo della cosiddetta legge penitenziaria (354/75) è dato leggere ancora oggi " Mezzi di coercizione fisica- La coercizione fisica, consentita per le finalità indicate nel terzo camma dell’art. 41 della legge(354/75) e sotto il controllo sanitario ivi previsto, si effettua con l’uso di fasce di contenzione ai polsi e alle caviglie.

La foggia e le modalità di impiego delle fasce devono essere conformi a quelle in uso, per le medesime finalità, presso le istituzioni ospedaliere psichiatriche pubbliche".

Sembra chiaro, pur se incidentalmente e a titolo esemplificativo, che il legislatore si sia voluto riferire agli ospedali per disciplinare una materia che nei presupposti ha a che fare con l’ambiente carcerario facendo una, forse involontaria, assimilazione. Ancora oggi è possibile leggere in trattati di psichiatria( o di geriatria) propositi di riduzione del ricorso a mezzi di coercizione confondendo un discutibile opportunità con la liceità degli atti stessi. Il troppo spesso richiamato stato di necessità, come abbiamo visto, non aiuta a risolvere il problema della liceità della contenzione. Si è visto nel corso dello sviluppo della tesi come non è stato possibile rinvenire altrove la ricercata liceità.

Rimane solo da vedere se può dirsi soddisfatta dalla previsione, fatta dal legislatore, dei trattamenti sanitari obbligatori la ricerca della liceità degli atti di coercizione.

Si pone cioè la domanda se i trattamenti sanitari obbligatori per malattie mentali possono considerarsi coattivi(nel senso supra indicato) e in caso di risposta affermativa se compete al personale sanitario fare uso della forza fisica.

Rispetto al primo punto alla maggioranza della dottrina è parso di ritenere coattivi, assieme al trattamento del morbo di Hansen, di alcune malattie veneree, i trattamenti obbligatori dei malati di mente; così come sono stati disegnati dalla riforma del 1978.

Anche a voler ritenere necessario il rispetto dell’art. 13 della Costituzione tale requisito pare rispettato con il previsto intervento del giudice tutelare nel procedimento attuativo del t.s.o.

Pur se nel procedimento l’aspetto "amministrativo" risulta prevalente l’intervento del giudice tutelare in funzione di controllo sull’esistenza dei presupposti per il t.s.o. si spiega con la necessità di procedere al ricovero in ambiente chiuso e con la conseguente privazione della libertà. Al contrario il richiesto rispetto della dignità della persona umana, tutta l’attenzione attorno alla libertà di comunicazione, la ricerca del consenso(come partecipazione alle cure) sembrerebbe deporre per l’opinione contraria che ritiene di limitare la coercizione ai casi di vera sussistenza dello stato di necessità….

Cioè(formalmente), in ambiente psichiatrico, quasi mai. Si è anche visto come autorevoli fonti governative sembrano non considerare trattamenti gli atti di coercizione.

Riguardo l’altro problema, e cioè se la coercizione al trattamento competa al personale sanitario o alla polizia municipale si è già detto, con il conforto di fonti governative, tanto statali quanto regionali, che bisogna distinguere gli atti di resistenza(da parte del paziente)che richiedono l’uso della forza fisica dalle passive resistenze.

Rispetto ai primi è indubitabile la competenza dell’intervento alle forze di polizia municipale trattandosi dell’esecuzione di un provvedimento amministrativo ed eventualmente si può prospettare l’intervento delle forze di pubblica sicurezza. La presenza del personale sanitario, ritenuta necessaria pur nell’esecuzione del provvedimento, si spiega per la natura sanitaria del provvedimento(che tale rimane anche in presenza di atti presupposti di coercizione posti in essere dalle forze di polizia).

Messe così le cose si può dire che in assenza di un provvedimento di t.s.o. il medico a fronte di un paziente che validamente dissente non ha nessun titolo per intervenire coercitivamente. Se il dissenso può essere equiparabile alla mancanza del consenso, nel senso supra visto,(sempre in assenza di t.s.o.) e sussistono i presupposti per la sussistenza dello stato di necessità di cui all’art. 54 del c.p. si può ritenere lecito l’intervento coattivo nei limiti consentiti dal bilanciamento degli interessi.

Per il paziente in t.s.o. la situazione non cambia di molto in quanto, per come visto, il provvedimento autorizzativo del trattamento obbligatorio consente al medico di procedere, nell’esecuzione delle sue mansioni, di prescindere dal consenso del paziente.

Con l’ordinanza di t.s.o. del sindaco, debitamente convalidata, il medico chiamato ad attuare il trattamento non acquista poteri coercitivi; semmai maggiori e più cogenti responsabilità. E a ben vedere il rapporto coercitivo interno al problema dell’esecuzione del t.s.o.(artt,34,35 L. 833/78) non si stabilisce fra medico e paziente ma fra paziente e Stato(in senso lato).

Il paziente infermo di mente è chiamato e cedere parte delle proprie prerogative di libertà(anche per mano del medico) alla collettività e non al medico. E’ quindi diritto del paziente pretendere, anche se infermo di mente, l’applicazione delle leggi nei suoi confronti e vedersi perciò "costretto" dalle forze dell’ordine pubblico. Anche in tutti gli altri trattamenti sanitari obbligatori e coattivi, in fondo, vi è un ché di rassegnata collaborazione con il medico; e quando tale rassegnata collaborazione si rompe e vi è fuga o resistenza attiva interviene l’organo istituzionalmente adibito a ciò: polizia ecc..

Mi pare di poter concludere che la diretta coercizione non è fra le prestazioni professionalmente richiedibili allo psichiatra: né si può dire al personale infermieristico che al pari di quello medico è personale sanitario. E visto che l’organigramma del nuovo assetto della psichiatria non prevede figure di personale di custodia non rimane che concludere che, essendo venuta meno tale esigenza che caratterizzava la vecchia normativa manicomiale(che invece, coerentemente prevedeva personale specifico di custodia), il ricorso all’uso della forza fisica è esterno al rapporto terapeutico e di competenza delle forze di polizia.

L’episodio contingente del malato di mente che si rende pericoloso con i suoi atteggiamenti aggressivi non è dissimile(in diritto) dallo stesso quadro che ha per protagonista un malato di ischemia cardiaca o di diabete mellito e se quest’ultimo si rende protagonista di episodi di reato( tipo minacce, ingiurie, o percosse) al più lo si denuncia o si chiede l’intervento della polizia; non lo si lega a letto. Se anche il paziente si trova a dover subire un t.s.o., come si è più volte affermato, la situazione non cambia.

Il personale sanitario, in particolare, anche in esecuzione di un t.s.o. è chiamato a porre in essere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. Cioè a dire, e questo vale in modo particolare in ambiente psichiatrico, non si può materialmente curare un malato contro la sua volontà. Si è visto, che nei casi, citati dalla dottrina, di sciopero della fame ove vi è stata alimentazione coattiva il paziente risoluto al rifiuto di alimentarsi è alla fine deceduto.

Ed è cosa notissima che nel trattamento psichiatrico non è possibile prescindere dal consenso proprio perché si lavora sulla mente. Il momento dell’uso della forza se può essere necessario, perché come detto in precedenza il consenso al trattamento rappresenta il punto d’arrivo del trattamento e non quello iniziale, viene a collocarsi fuori dal rapporto terapeutico.

inizio

Capitolo VI
Conclusioni sulla responsabilità professionale dello psichiatra

Prima di affrontare il problema della responsabilità professionale dello psichiatra c’è da dire che, volutamente, si omette di trattare l’ampia tematica della responsabilità professionale del medico in generale; ciò per concentrare l’attenzione sulla responsabilità professionale dello psichiatra per la riconosciuta peculiarità che riveste nel panorama delle professioni.

Si restringe, inoltre, il campo dell’indagine alla responsabilità colposa, e si ritiene nota la tematica relativa alla validità o meno in ambito penalistico della graduazione della colpa (ex artt1176 e 2236 del c.c. ),dei riflessi in dottrina e in giurisprudenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 166 del 28/11/1973 che limita alla sola imperizia la responsabilità per colpa grave per i reati commessi dal sanitario nella risoluzione di problemi di una certa difficoltà.

Se si passa a considerare la risoluzione dei problemi che deve affrontare lo psichiatra, tale difficoltà è resa ancora più acuta per la maggiore indeterminatezza dello stesso concetto di malattia mentale (sovente soggetto a ideologismi che ne minano la condivisione comune degli psichiatri).

Maggiori difficoltà si colgono poi nell’aspetto relativo alla prognosi con le ricadute, che vedremo, in ordine alla previsione dell’evento. Non va taciuta, da ultimo, la varietà di approcci terapeutici che caratterizzano le varie scuole di pensiero in psichiatria.

Quest’ultima notazione risulta di enorme importanza quando si passa a considerare il problema della colpa relativamente all’imperizia, per le connesse difficoltà di considerare, eventualmente, come mancanza dei minimi requisiti culturali e professionali ciò che diversamente può per lo psichiatra essere invocato come una consapevole scelta di indirizzo scientifico. Uno stesso atteggiamento(come nell’esempio della sentenza che di qui a poco si riporterà) può essere considerato grave inerzia, con il dubbio se si tratta di imperizia o negligenza, o invece una meditata scelta terapeutica.

Nel caso in sentenza si tratta di uno psichiatra che ha omesso di intervenire( non richiedendo un t.s.o.) a fronte di un malato di mente che presentava gravi sintomi psicotici, con la giustificazione che un ulteriore "psichiatrizzazione" non avrebbe, in quel momento, giovato alla sua salute. Successivamente il malato di mente, probabilmente in preda a delirio, uccise la propria madre e lo psichiatra venne rinviato a giudizio per omicidio colposo.

Il profilo della responsabilità professionale del medico psichiatra, viene in questo capitolo affrontato per la ragione che pare ritenersi, in ambiente psichiatrico in particolare, che la necessità di sottrarsi a responsabilità penali, derivate da omissioni, giustificherebbe il ricorso a pratiche di tipo coercitivo. Si ritiene che sullo psichiatra gravi ancora un obbligo di custodia essendo le alterazioni mentali che necessitano di urgenti interventi terapeutici in ambiente di ricovero, di cui all’art.34 della L.833/78, null’altro che una nuova edizione del vecchio concetto di pericolosità(a se e agli altri) della vecchia L. 36 del 1904.

La nuova forma di custodia è finalizzata alla tutela della salute del malato di mente e, di conseguenza, comprende forme di sorveglianza che si estendono fino al necessario ricorso ad atti coercitivi. Tale convinzione viene in un certo modo avallata anche da talune sentenze che sembrano ritenere la permanenza dell’obbligo di custodia e del conseguente dovere di impedire certi atti violenti commessi dal paziente contro terze persone: " Risponde di omicidio colposo il medico responsabile del servizio di igiene mentale il quale abbia, malgrado l’esplicita richiesta dei famigliari, omesso di proporre un trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera, e si sia comunque astenuto dal prescrivere idonee misure terapeutiche alternative, nei confronti di schizofrenico resosi responsabile, due giorni dopo, di un accoltellamento letale ai danni della madre."

La massima della sentenza appena riportata( poi annullata senza rinvio in cassazione) esprime in modo chiaro l’idea che sull’operatore psichiatrico grava una posizione di garanzia di controllo tale che omettere un certo intervento, ( si vedrà se solo terapeutico) impeditivo di danni alla persona, derivanti da comportamenti emessi dal malato mentale equivale a cagionarli.

Siamo com’è evidente nell’ambito della responsabilità per reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione.

Per meglio riportare quanto intendo dire per ciò che riguarda il tema in tesi è opportuno riportare succintamente i fatti oggetto della sentenza della quale si è riportata la massima.

Un medico psichiatra, responsabile del CIM, viene fatto oggetto, da parte dei famigliari di un paziente a lui noto, di reiterate richieste di intervento, (attivarsi a richiedere un t.s.o.), a causa del peggiorare delle condizioni di salute del paziente stesso.

Il paziente, a dire dei famigliari, negli ultimi giorni è divenuto sempre più nervoso, trascura di dedicarsi alle più elementari attività di accudimento della persona, si fa minaccioso verbalmente. Da parte sua, lo psichiatra, ritiene di non intervenire nella direzione richiesta dai famigliari, a ragione del fatto che già in precedenza il paziente era stato molte volte trattato obbligatoriamente con il risultato di peggiorare le condizioni di salute(era stato troppe volte psichiatrizzato); ed inoltre era noto un suo atteggiamento di rifiuto verso i farmaci e repulsivo verso lo stesso psichiatra in causa.

Alcuni giorni successivi alle ultime richieste dei famigliari il malato mentale uccide, mediante accoltellamento, la madre. Dopo una tormentata vicenda giudiziaria si arriva in appello con la condanna riportata, in massima, sopra.

Si ragiona, nella motivazione della sentenza, che se pure non esisteva a carico del medico un obbligo ad avviare il procedimento per il t.s.o.(essendo lui il medico della prima proposta e non già della convalida) doveva tuttavia attivarsi almeno a visitare il paziente, o a farsi sostituire da altro medico. Un suo intervento in tale direzione, doveroso per la già sorta posizione di garanzia a suo carico, avrebbe con probabilità vicina alla certezza impedito l’evento dell’omicidio poi verificatosi.

Sulla base di tale ragionamento si deve concludere che permarrebbe in capo allo psichiatra un obbligo di custodia dei malati mentali a proprio carico. Sul superamento di tale concezione si è già detto in precedenza quando si è parlato dei t.s.o. psichiatrici argomentando, fra l’altro, anche dall’abolizione delle norme contenute nel codice penale, che più caratterizzavano tale forma di controllo.

Dato lo scarsissimo repertorio giurisprudenziale che riguarda la responsabilità penale dello psichiatra non aiuta il pronunciamento della Corte di Cassazione relativo al procedimento in parola.

Se pure la sentenza viene annullata senza rinvio non si affronta il problema relativo alla posizione di garanzia ed al contenuto di essa; cioè se tale posizione di garanzia deve essere finalizzata alla cura del paziente, come pare essere sulla base della normativa vigente, od anche alla custodia come vuole parte della dottrina della medicina legale che ragionevolmente argomenta su dati di necessità obbiettiva.

La Corte di Cassazione, nell’annullare la sentenza pronunciata in Appello, argomenta partendo dalla mancanza del nesso di causalità fra l’omessa richiesta di t.s.o. e l’evento omicidio, ( ad opera del malato mentale) osservando come: dalla richiesta del primo medico alla convalida del secondo all’ordinanza del sindaco vi sono troppi passaggi per ritenere che, nel giudizio ipotetico, l’avvenuta richiesta di t.s.o. avrebbe con probabilità vicina ala certezza impedito l’evento.

Questa incertezza, giurisprudenziale, attorno al problema della custodia, lascia il campo alla dottrina che peraltro è divisa.

Si va da Autori come Greco-Catanesi che sostengono, decisamente, che perfino il consenso alle cure potrebbe essere dal paziente utilizzato in maniera strumentale; tale da consigliare allo psichiatra di assumere su di se il dovere di attivare le procedure per il t.s.o. e,( nelle more del procedimento) persino ritenersi legittimato a trattenere il paziente.

Altri come il Fiandaca,(come già visto nelle pagine precedenti) che ritengono superata la posizione di garanzia finalizzata alla custodia e quindi esclusi dall’obbligo giuridico, di cui all’art. 40 2° comma, gli eventi legati alla pericolosità del malato di mente.

In altre parole secondo alcuni, e a dispetto di quanto si è in precedenza detto rispetto al diritto a rifiutare le cure a lasciarsi morire e ai diritti di libertà, in presenza di una situazione che ha i requisiti richiesti dalla L.833 per l’attivazione del t.s.o. vi sarebbe la legittimazione a trattenere coattivamente il paziente in attesa dell’emanazione dell’ordinanza del sindaco. Tutto questo sia perché ai requisiti in parola corrisponderebbe lo stato di necessità sia perché per taluni psichiatri(operanti in strutture pubbliche) vi sarebbe l’obbligo di intervenire per non vedersi incriminati del non impedimento dell’evento che potrebbe seguirne(si va dal suicidio del paziente all’omicidio di terzi… nonché il reato di abbandono di incapaci, di omissione si soccorso, di atti di ufficio ecc.).

Si osserva solo che ritenersi legittimati(se non, addirittura, obbligati) a trattenere fisicamente il paziente, rientrante nei presupposti per il t.s.o., in attesa del provvedimento del sindaco, sulla base delle motivazioni espresse, pecca di eccessiva vaghezza. Tanto che, seguitando nel ragionamento, può dirsi che sussistenti i presupposti per il t.s.o., da taluni ritenuti equivalenti allo stato di necessità, si può ritenere inutile la stessa previsione di legge del t.s.o psichiatrico. E ciò perché, il trattamento obbligatorio potrebbe essere iniziato, ed eventualmente proseguito, anche qualora il provvedimento del sindaco non dovesse sopravvenire(dato lo stato di necessità).

Anche l’aspetto del consenso al trattamento viene trattato in maniera discutibile: si ritiene, sovente, il consenso alle cure fuori dal luogo di ricovero, come una strategia del paziente per sottrarsi alle cure.

In questi casi si potrebbe porre in essere allo stesso modo il t.s.o. considerando dissenso ciò che agli occhi di tutti appare essere un consenso, e tutto sulla base di una valutazione,(che poi sono due vista la procedura) scientifica ma che soffre di quella indeterminatezza cui si è già fatto cenno. Ancora una volta tutto il carico di una decisione in capo al solo psichiatra che così viene a ritrovarsi arbitro del destino del paziente. Tutta questa impostazione trova ragione di essere nell’assunto della permanenza in capo allo psichiatra del dovere di custodia che legittima i "poteri"(o la potestà secondo altri ) del medico nei confronti del paziente.

Ma anche a voler ritenere esistente tale dovere che si fonda sulla pericolosità del paziente che non è venuta meno per volontà della legge ci sarebbero difficoltà in ordine alla stessa definizione di pericolosità, alla prevedibilità dell’evento, alla possibilità concreta di impedimento.

Infatti se può essere vero che un paziente continua ad essere pericoloso anche in previsione di una legge che esclude chiaramente fra i presupposti per il t.s.o. proprio la pericolosità ciò non vuol dire che proprio sullo psichiatra gravino compiti di neutralizzazione.

Anche a voler ritenere che le alterazioni psichiche di cui all’art. 34 della L.833, al limite coincidano con la pericolosità a sé, rimane la difficoltà di separare la pericolosità a sé da quella agli altri che chiaramente è esclusa dai presupposti per attivare le procedure del t.s.o.

Il solo requisito della pericolosità(sia a sé sia agli altri) per la indeterminatezza che lo caratterizza non basta perché possano ritenersi legittimamente valide le procedure per il t.s.o.; immancabilmente occorre anche il requisito della necessità del miglioramento della salute della persona trattata. Tutto ciò anche a voler considerare, e per come si è detto, che le alterazioni psichiche corrisponderebbero almeno a pericolosità a se.

Ancora rispetto al problema della responsabilità per omesso impedimento riguardo a pazienti pericolosi, che è l’oggetto della sentenza in parola occorre dire dell’elemento della prevedibilità dell’evento.

Si sa come è difficilissimo stabilire elementi prognostici riguardo ai comportamenti futuri di una persona e tale considerazione non viene meno riguardo ai malati mentali i cui comportamenti sono,. per ciò solo, sotto il controllo dello psichiatra.

Se ciò è vero, e si ha riguardo al reato omissivo improprio colposo, si deve concludere che almeno nel caso in parola sarebbe stato difficile condannare lo psichiatra anche sulla base della carenza dell’elemento soggettivo. Sarebbe cioè stato impossibile prevedere, ex ante, quel tipo particolare di comportamento futuro(che poi vi è stato) che è esitato nell’uccisione. Ma anche qualora ci si trovasse davanti ad un paziente psichiatrico che emette propositi aggressivi suscettivi di essere praticati di li a poco, nell’attualità, la situazione comunque avrebbe a che fare con un problema di ordine pubblico e al più lo psichiatra dovrebbe attivarsi(come farebbe un qualunque cittadino) per allertare gli organismi deputati all’uso della forza(polizia ecc..).

Ma anche a voler concedere, come fa la Corte d’Appello di Perugia, la sussistenza di un obbligo di attivarsi, per la sussistenza di una situazione di garanzia a carattere di custodia, il compito omesso dallo psichiatra condannato è poi stato quello di non aver posto in essere la richiesta di t.s.o.(come gli veniva richiesta dai famigliari) e non già di non avere trattenuto con la forza il paziente.

In nessun passaggio della motivazione della sentenza è possibile rinvenire un obbligo a contenere fisicamente il malato di mente; si ritiene censurabile(errando come osserva il Fiandaca) il fatto di avere omesso atti del proprio ufficio(infatti si osserva che semmai la condanna doveva essere riguardo all’art.328 c.p. e non per omicidio colposo) del tipo visitare il paziente e successivamente richiedere il t.s.o. e non altro.

Non rimane perciò che da concludere che, anche per la scarsezza delle fonti, nemmeno dalle pronunce della giurisprudenza è possibile ritrovare tracce di una ritenuta liceità della contenzione a letto o di altri atti coercitivi nel trattamento sanitario psichiatrico. Occorre ritenere il malato di mente ala stessa stregua di qualunque altro malato, e quando emette comportamenti che possono integrare fattispecie di reato va trattato come una qualunque altra persona. Va valutata la sua capacità di intendere e di volere, anche se per "quote", va anche per lui previsto il normale circuito giudiziario e non la supplenza psichiatrica che, al di là delle intenzioni, finisce per privarlo di alcuni diritti più che proteggerlo.

Circa poi la tentazione di sentirsi legittimati ad atti coercitivi sulla scorta della considerazione che tanto di solito i casi nei quali si ricorre alla contenzione sono tali che lo stato mentale del paziente non gli consente di avvertire la privazione della libertà si segnala la sentenza della Corte di Cassazione del 17/10/1990 che così si esprime nella massima "Ai fini della configurazione del reato di sequestro di persona deve prescindersi dall’esistenza nell’offeso di una capacità volitiva di movimento ed istintiva di percezione della privazione della libertà, per cui il delitto anche nei confronti di infermi di mente e di paralitici."(Nell’affermare il principio di cui in massima la Cassazione ha evidenziato che la persona umana è da considerarsi libera non in quanto abbia capacità di muoversi, ma in quanto sia assente ogni coercizione che sottragga il suo corpo a possibilità di movimento nello spazio).

Il senso della sentenza è chiarissimo e non abbisogna di altro commento. Per ciò che attiene al problema della coercizione in ambiente psichiatrico è tutto un atteggiamento che va rivisto e va precisato se lo psichiatra può avere una funzione di "controllo sociale" nel senso di oggettiva mediazione fra diverse spinte sociali contrapposte e di mantenimento di adeguati livelli di omeostasi sociale non ha invece una funzione di "controllo sociale disciplinare" che è tipica di quelle istituzioni primariamente deputate al controllo sociale e che perciò possono e debbono poter giungere perfino all’uso della forza fisica per adempiere al proprio mandato( polizia ecc.).

Lo psichiatra, come ogni altro medico ha solo compiti di tutela della salute dei suoi pazienti che se necessario può spingersi fino all’uso di strumenti coercitivi ma solo in presenza della tipica situazione dello stato di necessità che come abbiamo visto richiede presupposti di rara verificabilità in ambito psichiatrico. E sappiamo anche come per parte della dottrina, per come visto in precedenza, è valido il dissenso pur in presenza dello stato di necessità.

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Giurisprudenza

1. Tribunale di Milano, Sez. VI, 4 dicembre 1997.

Omessa richiesta di consenso informato per biopsie stereotassiche – Violazione della libertà di autodeterminazione e del diritto all’informazione – Lesioni personali configuranti danno alla salute di rilevanza penale e civile.

E’ costituzionalmente tutelata la libertà di autodeterminarsi, in ordine ad atti che coinvolgono il proprio corpo, in base al principio della libertà personale(art. 13 Cost.), Nel diritto di ciascuna persona di disporre della propria salute ed integrità personale, pur nei limiti previsti dal nostro ordinamento, deve essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche lasciando che la malattia segua il suo corso, anche fino alle estreme conseguenze, trattandosi di una scelta che riguarda la qualità della vita. Sussiste il reato di lesioni nel caso di trattamenti medico-chirurgici prestati senza il valido consenso del paziente ed il correlativo diritto al risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c. e del danno biologico ed eventualmente patrimoniale, trasmissibile agli eredi iure ereditatis. Il consenso dei congiunti di paziente dotato di normale capacità mentale è invalido. Riv. It. Med. Leg., 20, 1998, 1129-1163(commento di A. Fiori).

2. Pretura di Arezzo, sez. distaccata di Montevarchi, 24 marzo 1997. Consenso dell’avente diritto – Vizio del consenso – Conseguenze – Responsabilità per eccesso colposo.

Il consenso viziato, dovuto ad un’informazione carente da parte del chirurgo in ordine ai rischi impliciti nell’intervento a finalità diagnostiche in caso di esito infausto, configura reato di lesioni colpose per eccesso colposo nella causa di giustificazione del consenso dell’avente ( fattispecie di asportazione di linfonodo larero-cervicale, a fini di biopsia, causativa di lesione del nervo accessorio). In Riv. It. Med. Leg. 1997, 19, 1103-1118.

3. Corte Costituzionale, sentenza 19 luglio 1996, N. 257 . Procedimento civile – Procedimenti di istruzione preventiva – Disciplina prevista nell’art. 696, primo comma, cod. proc. civ., riguardo all’accertamento tecnico e all’ispezione giudiziale – Potere del giudice di disporli sulla persona nei cui confronti è proposta l’istanza dopo averne acquisito il consenso – Mancata previsione – Ingiustificata limitazione del diritto alla con incidenza sul principio della parità delle parti.

E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 696, primo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale anche sulla persona nei cui confronti l’istanza è proposta, dopo averne acquisito il consenso. In G.U. del 24/7/1996 N. 30.

4. Corte Costituzionale; sentenza del9 luglio 1996, N. 238.

Processo penale – Indagini preliminari – Incidente probatorio – Perizia – Potere del giudice di disporre coattivamente il prelievo ematico o altre forme di accertamenti medici di carattere invasivo nei confronti dell’indagato o anche di terzi estranei all’imputazione – Ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina prevista per le ipotesi analoghe – Incidenza sul principio della inviolabilità personale comprimibile solo nei casi tassativamente determinati.

E’ legittimo l’art. 224 comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificatamente previste nei "casi" e nei "modi" dalla legge. In G.U., del 17/7/1996 N. 29.

5. Tribunale di Messina; ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sentenza 11 luglio 1995.

E’ da escludersi il nesso di causalità tra l’omissione di un intervento chirurgico, pur in astratto necessario, e la morte del paziente quando le condizioni generali di quest’ultimo fossero tali da non lasciar in alcun modo prevedere un esito favorevole dello stesso intervento "quod vitam".

Non è condivisibile l’assunto secondo cui il paziente o, in caso di incapacità a consentire di questi, dei suoi familiari, specie nei casi in cui esso si presenti come ad elevato rischio e dal verosimile esito infausto. Riv. It. Med. Leg. 1996, 302-318. Commento di G. Iadecola e A. Fiori.

6. Corte Costituzionale; sentenza 27 marzo 1992, N. 132. Sanità pubblica – Malattie infettive e sociali – Poliomielite – Vaccinazioni – Legge N. 51 del 1966 – Incoercibilità della vaccinazione obbligatoria in caso di omissione o dissenso dei genitori del minore – Preteso contrasto con l’artt. 32 e 34 Cost. – Infondatezza nei sensi di cui in motivazione. Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, con riferimento agli artt. 32 e 34 Cost., la questione di legittimità costituzionale delle norme della L. 4/2/\966 n. 51 ( obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica). (….) La legge impugnata, nel prevedere l’obbligo della vaccinazione – che costituisce uno dei trattamenti sanitari cui fa riferimento l’art.32 Cost. – ha previsto una sanzione, la determinazione della quale è rimessa alla discrezionalità del legislatore e non è censurabile se non arbitraria. L’applicazione degli artt. 333 e 336 c.c. non può ritenersi preclusa in ragione dell’espressa previsione di una sanzione amministrativa per il caso di violazione dell’obbligo in esame: gli interventi previsti dalle norme suddette non hanno natura sanzionatoria e, pertanto, non può essere fatto richiamo al principio di specialità; né può, in generale, ritenersi che sia precluso il ricorso alle misure istituite per l’attuazione specifica della legge in ragione del fatto che sono previste sanzioni per la violazione di essa.(…..) Riv. It. Med. Leg., 1992, 14, 1108-1113.

7. Corte di Cassazione; sez. V, sentenza del 21/4/1992.

Omicidio preterintenzionale – Atti diretti a commettere il reato di lesioni personali – Trattamento chirurgico – Mancanza del consenso del paziente o dei familiari – Assenza di cause di giustificazione – Configurabilità del reato – Fattispecie.

Il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutica, che sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità, rispetto a quello meno cruento e comunque di lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte(….) Il Foro Italiano, 1992,II, p.550 ed in Iadecola Gianfranco, Potestà di curare e consenso del paziente, CEDAM, 1998, p. 296-305; anche in Riv. Pen., 1995, 1461 con commento di Galanti.

7.1. Corte d’Assise di Firenze, 18 ottobre 1990.

Lesioni personali – Cause di giustificazione – Trattamento medico-chirurgico – Necessità del consenso del paziente – Lesioni arrecate nello svolgimento di attività chirurgica diversa da quella consentita ed inizialmente intrapresa – Reato di lesioni volontarie – Configurabilità, salva la sussistenza di uno stato di necessità – Morte del paziente come conseguenza non voluta delle lesioni – Omicidio preterintenzionale – Sussistenza.

Qualsiasi forma di trattamento medico-chirurgico richiede l’esplicito consenso del paziente(o del suo rappresentante legale), senza che possa avere rilevanza un consenso meramente presunto: risponde del reato di lesioni volontarie(o, in caso di conseguente morte del paziente, di quello di omicidio preterintenzionale), il chirurgo che , senza che ricorrano i presupposti dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., cambi il tipo di operazione e sottoponga il paziente ad un intervento più cruento di quello consentito ed inizialmente intrapreso.Riv. It. Med. Leg., 13, 1992, 1333-1357.

8. Corte di Cassazione, sezione V, sentenza del 17 ottobre 1990.

Sequestro di persona – Necessità dell’esistenza nell’offeso di una capacità volitiva di movimento e istintiva di percezione della privazione della libertà – Esclusione – Ipotizzabilità del delitto anche nei confronti di infermi di mente e paralitici – Sussistenza. (….)

Ai fini della configurazione del reato di sequestro di persona deve prescindersi dall’esistenza nell’offeso di una capacità volitiva di movimento e istintiva di percezione della privazione della libertà, per cui il delitto è ipotizzabile anche nei confronti di infermi di mente o di paralitici. (…..) Il Foro Italiano, II, 1990, 549-552.

9. Pretura di Modica; ordinanza 13 agosto 1990.

E’ legittimo l’intervento coercitivo del sanitario responsabile di una struttura pubblica nei confronti di un paziente in pericolo di vita, che rifiuti una terapia trasfusionale, siccome contraria al suo credo religioso. In Iadecola Gianfranco, Potestà di curare e consenso del paziente, CEDAM, Padova, 1998, 282-296.

10. Corte d’Appello di Bologna; sentenza 28 novembre 1987. Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli – Elemento soggettivo del reato – Molteplicità di fatti vessatoricontro la stessa persona – Fattispecie – Insussistenza del reato.

Sequestro di persona – Consenso dell’avente diritto – tossico dipendenti in comunità terapeutica chiusa – Scriminante del reato – Limiti.

Stato di necessità – Sussistenza dell’esimente – Estremi.

Sequestro di persona – Esimente dello stato di necessità – Tossicodipendenti sottoposti a programma terapeutico limitativo della libertà personale in comunità "chiusa" – Sussistenza dell’esimente – Eccesso colposo in relazione all’art. 54 Cod. pen. – Fattispecie – Insussistenza del reato.

Non sussiste il reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 Cod. pen. qualora gli episodi di vessazione sono costituiti dalla somma di singoli episodi contro più soggetti diversi, essendo invece necessaria per la sussistenza del reato in questione una molteplicità fatti contro la stessa persona.

Il consenso alla privazione della propria libertà personale da parte di tossicodipendenti sottoposti a programma terapeutico in comunità "chiusa" non discrimina, alla stregua dell’ultima parte del 2° comma dell’art. 32 Cost. il reato di sequestro di persona, qualora la privazione della libertà copra un arco temporale incongruamente dilatato rispetto alle esigenze di recupero del singolo soggetto o assuma carattere lesivo della dignità sociale di quest’ultimo.

La non punibilità dell’agente, ai sensi dell’art. 54 C.P. è collegata alla sussistenza di un pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.

Ricorrono tutte le condizioni volute dalla legge per l’integrazione dello schema legale dello stato di necessità, scriminante il reato di sequestro di persona, nel caso in cui la privazione della libertà personale nei confronti di tossicodipendente sottoposti a programma terapeutico in comunità "chiusa".

La giustizia Penale 1988, 229-251. (Caso Muccioli).

10.1. Tribunale di Rimini; sentenza 16 febbraio 1985.

Cause di non punibilità – Consenso dell’avente diritto – Tossicodipendenti in comunità terapeutica "chiusa" – Fattispecie di sequestro di persona e maltrattamenti – Irrilevanza del consenso – Revocabilità del consenso.

Cause di non punibilità – Stato di necessità – Stato di necessità erroneamente supposto - Tossicodipendente in comunità terapeutica "chiusa"- Fattispecie di sequestro di persona e maltrattamenti – Insussistenza dell’esimente.

Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli – Tossicodipendenti in comunità terapeutica "chiusa" – Reato – Sussistenza – Fattispecie – Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina – Reato – Esclusione.

I delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti, commessi in danno di tossicodipendenti sottoposti in comunità "chiusa" a programmi terapeutici inclusivi di restrizione della libertà e trattamenti vessatori, non sono scriminati dal consenso del ricoverato, poiché il consenso medesimo è invalido quando concerna la soppressione della libertà personale o limitazioni così gravi da sminuire in modo notevole la funzione sociale dell’individuo.

Il consenso prestato a programmi terapeutici inclusivi di restrizioni della libertà e vessazioni configuranti i delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti può essere revocato in qualsiasi momento, conservando il tossicodipendente la capacità di determinarsi validamente anche in corso di crisi di astinenza.

I delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti commessi nei confronti di ricoverati in comunità terapeutica "chiusa" non sono scriminati dallo stato di necessità( né dall’erronea supposizione di esso) di impedire a tossicodipendenti in fase di svezzamento di abbandonare la comunità, posto che il loro ritorno in ambiente libero non è di per sé foriero di conseguenze funeste, malgrado il nocumento alla salute e il danno alla società.

Integra il delitto di sequestro di persona il trattenere con la forza soggetti tossicodipendenti, impedendo loro di allontanarsi dalla comunità terapeutica "chiusa" nella quale avevano accettato di entrare, a tal fine segregandoli in appositi locali e talvolta incatenandoli. (…) (…) (….).Il Foro Italiano, 1985, 431-462. ( Caso Muccioli). Commento di G. La Greca e D. Pulitanò.

11. Corte di Cassazione; sezione IV penale; sentenza 5 maggio 1987; annulla senza rinvio App. Perugia 9/11/84. Omicidio e lesioni personali colpose – Omicidio colposo – Responsabilità di medico psichiatra – Reato – esclusione.

Non è responsabile di omicidio colposo, per insussistenza del nesso di causalità tra la condotta e l’evento, il medico responsabile del servizio di igiene mentale il quale abbia, malgrado l’esplicita richiesta dei famigliari, omesso di proporre un trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera nei confronti di schizofrenico resosi autore, due giorni dopo, di un accoltellamento letale ai danni della madre.

11.1. Corte d’Appello di Perugia; sentenza 9/11/1984, Omicidio e lesioni personali colpose – Omicidio colposo – Reato –  Sussistenza.

Risponde di omicidio colposo il medico responsabile del servizio di igiene mentale il quale abbia, malgrado l’esplicita richiesta dei famigliari, omesso di proporre un trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera, e si sia comunque astenuto dal prescrivere idonee misure terapeutiche alternative, nei confronti di schizofrenico resosi responsabile, due giorni dopo, di un accoltellamento letale ai danni della madre.

12. Tribunale di Perugia; sentenza 20/10/86, Abbandono di minori o incapaci e di neonato per causa d’onore – Abbandono di persone incapaci – Responsabilità di medico del centro d’igiene mentale – Reato – Sussistenza.

Risponde del reato di abbandono di persone incapaci il medico del centro di igiene mentale, il quale si sia astenuto da qualsiasi forma di intervento terapeutico nei confronti di quattro componenti uno stesso gruppo famigliare affetti da turbe psichiche tali da renderli incapaci di provvedere a se stessi.

Con commento di G. Fiandaca e A. Manacorda, Il Foro Italiano, 1988, II, 107-142.

13. Corte d’Assise di Roma, 25 febbraio 1984.

Omicidio – Omicidio del consenziente – Soggetto dotato di capacità intellettiva elementare – Consenso espresso in maniera implicita – Validità.

Nonostante le risultanze di una perizia che, sulla base di indagini strettamente clinico-psichiatriche, abbia concluso che la vittima di un omicidio era affetta da insufficienza mentale di grado grave e tale da non potere esprimere il consenso alla propria uccisione, il giudice può, in base ad altri elementi ed in particolare ai pregressi rapporti di natura affettiva ed educativa fra la vittima e l’autore del reato, ritenere sussistente un implicito consenso al fatto criminoso. Riv. It. Med. Leg., 9, 1987, 201-217(commento di F. Introna).

14. Corte Costituzionale; sentenza 31 maggio 1983, N. 142, Sanità pubblica – Malattie infettive diffusive – Ordini dell’autorità sanitaria – Pericolo concreto di diffusione – Mancanza di motivazione – Questione di costituzionalità inammissibile.

E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 260 r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, in riferimento agli artt. 21, 32, e 33 Cost. per l’assoluta mancanza di motivazione in ordine alla sua rilevanza, che postulava il riferimento ad una situazione di diffusione della malattia che giustificasse l’ordine del sanitario di sottoporre a vaccinazione il figlio minore. Commento di G. Manfredi Parodi, Il Foro Italiano, 1984, 2657-2661.

15. Pretura di Monfalcone; sentenza del 2 giugno 1980.

Malati di mente – Ricovero coatto – Vigile urbano – Mancata esecuzione di ordinanza di ricovero emessa dal Sindaco – Omissione di atti di ufficio – Non sussiste.

La legge 13 maggio 1978 N. 180, stabilisce che gli interventi di ricovero e cura delle persone affette da malattie mentali sono attuati di norma dai servizi psichiatrici extraospedalieri.

Il Sindaco interviene come Autorità sanitaria ed anche il prelievo ed il trasporto dell’ammalato costituiscono una mera operazione sanitaria. Peraltro, in casi speciali, il comportamento dell’ammalato può essere tale da rendere necessario l’intervento della Forza pubblica rispetto al quale resta comunque preminente l’intervento degli operatori sanitari specializzati. Ove il vigile urbano inviato rendere esecutiva l’ordinanza di ricovero coatto emessa dal Sindaco si trovi solo, di fronte ad un malato agitato, con equivoci ordini di servizio e con l’inerzia operativa dell’infermiere ( pur presente sul luogo), non incorre nel reato di omissione di atti d’ufficio se non provvede a rendere esecutiva l’ordinanza ed a prelevare di forza l’ammalato. Riv. It. Med. Leg., 2, 1980, 910-919.

16. Corte di Cassazione; Sezione Penale IV; 19 dicembre 1979.

Omicidio e lesioni personali colpose – Medico – Responsabilità colposa – Sussistenza – Fattispecie (Cod. pen., art. 590). (….)

Risponde di lesioni personali colpose a titolo di imprudenza generica, e quindi oltre i limiti sanciti per la colpa professionale, il medico incaricato dall’amministrazione penitenziaria che trascuri di far interrompere la contenzione di un detenuto il quale, dibattendosi violentemente in preda a crisi psicomotoria, procuri danni alla propria persona. Il Foro Italiano, 1980, 145-148.

16.1. Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; sentenza 9 maggio 1978.

Violenza privata e violenza per costringere a commette un reato – Violenza privata – Estremi – Sussistenza – Fattispecie di violenze nei confronti di internati in manicomio giudiziario. (….)

Rispondono del reato di violenza privata aggravata il direttore e gli agenti di custodia di manicomio giudiziario che attraverso l’uso indiscriminato, da loro disposto, accettato e comunque non impedito di psicofarmaci nonché del letto di contenzione abbiano, in assenza dei presupposti previsti espressamente da disposizioni di legge, costretto numerosi ricoverati a subire la relativa limitazione di libertà.

17. Pretura di Pescara, decreto 8 novembre 1974.

Il giudice può autorizzare l’uso della terapia trasfusionale quando ricorra il pericolo di un pregiudizio imminente ed irregolare, anche se il paziente obbedendo al principio della propria fede religiosa, abbia rifiutato di sottoporsi a tale trattamento. G. Iadecola, Potestà di curare e consenso del paziente, CEDAM, Padova, 1998, 279-281.

18. Corte d’Appello di Firenze; sentenza 27 ottobre 1970.

Procreazione (procurata impotenza) – Sterilizzazione tubarica in occasione di parto cesareo – Pericolo di vita in eventuali future gravidanze – Sussistenza del reato.

Nel vigente ordinamento giuridico-penale non sono ammissibili, neppure sotto il profilo dell’analogia in bonam partem, cause di giustificazione non codificate. Di conseguenza ricade sotto le sanzioni di cui all’art. 552 c.p. il comportamento del chirurgo, che sottoponga una donna consenziente a sterilizzazione tubarica in occasione di parto cesare, anche in caso di pericolo per la sua vita nell’ipotesi di una futura eventuale gravidanza.

Integra la fattispecie di cui all’art. 552 c.p., la procurata impotenza alla procreazione di una donna ottenuta mediante sterilizzazione tubarica, se difetta il suo consenso, anche quando il chirurgo tale consenso abbia erroneamente supposto.

18.1. Tribunale di Firenze: sentenza del 19 dicembre 1968.

Procreazione (procurata impotenza) – Sterilizzazione in donna pluricesarizzata – Pericolo di vita in eventuali future gravidanze – Insussistenza del reato.

Anche in difetto di prestazione del consenso costituisce causa di giustificazione non codificata, ma ammissibile per analogia, il trattamento medico-chirurgico diretto a procurare, mediante sterilizzazione tubarica in occasione di parto cesareo, l’incapacità di procreare di una donna pluricesarizzata e con l’utero in gravi condizioni, se concorre il pericolo anche futuro ed eventuale per la vita della paziente in caso di successiva gravidanza.

Non integra la fattispecie di cui all’art. 552 c.p., la procurata impotenza alla procreazione di una donna ottenuta mediante sterilizzazione tubarica, se difetta il consenso della paziente; né la conclusione può mutare nell’ipotesi che il consenso sia stato erroneamente supposto dal chirurgo. Giurisprudenza di merito, 1972, 292-338, commento di E. Fortuna; si veda anche G. Vassalli: Alcune considerazioni sul consenso….op cit.

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Bibliografia

Per il concetto di trattamento sanitario psichiatrico e altri aspetti psicopatologici

 Aspetti relativi alla legislazione psichiatrica con speciale riguardo ai t.s.o.

Trattamenti sanitari e Costituzione

Trattamenti sanitari e cause di liceità

Responsabilità professionale del medico e dello psichiatra

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