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L’Agorà Penitenziaria

V Congresso Nazionale

S.I.M.S.Pe.-Onlus

30 settembre 1-2 ottobre 2004

501 Hotel Vibo Valentia

 Dott. Alfonso Luciano- Dott. Giuseppe Greco

 

Sessione 3  1 ottobre 2004

 

Relazione:

 

 

Il Trattamento sanitario obbligatorio

 

E’ possibile in carcere?

 

 

 

La Costituzione italiana definisce la salute come "fondamentale diritto dell’individuo" e come "interesse della collettività" (art. 32, 1° comma), delineando due aspetti, quello del diritto e quello dell’interesse, distinti ma coordinati.

Lo "stato di salute" non riguarda solo il singolo ma si riflette sulla collettività, per cui la relativa tutela non si esaurisce solo in situazioni attive di pretesa ma "implica e comprende il dovere di non ledere ne porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui".

 

Il diritto alla salute si configura, più in generale, come valore costituzionale supremo in quanto riconducibile all’integrità psico-fisica della persona (e non considerato solo quale diritto sociale a prestazioni sanitarie), per cui, se la tutela di esso non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone, tuttavia le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento degli interessi, un peso tale da determinare la compressione del nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana.

 

In quanto diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività la salute della persona deve essere tutelata sempre anche nei confronti del detenuto. Peraltro anche l’art. 27 della Costituzione nel sancire che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità non fa altro che sottolineare l’inviolabilità della integrità psicofisica del detenuto.

 

Bisogna comunque considerare che l’esigenza, della sicurezza,  in concreto può determinare una limitazione nella fruizione del pieno diritto della salute del detenuto, anzitutto in ordine alla possibilità di scegliere il luogo della cura, che è effettuata dall’amministrazione penitenziaria e dall’autorità giudiziaria tenendo conto proprio delle esigenze di sicurezza, nonché dell’adeguatezza o meno del servizio sanitario penitenziario rispetto al caso concreto.

 

Il problema centrale della assistenza alle persone recluse, è quindi quello della estensione del "limite" delle esigenze di sicurezza, potenzialmente idoneo ad incidere anche sulle altre espressioni del diritto alla salute inteso come valore supremo, e in special modo sul diritto a trattamenti sanitari, che si traduce nella pretesa all’ottenimento dei trattamenti di miglior livello che, nelle circostanze date, gli operatori sono in grado di fornire, sul rifiuto dei trattamenti sanitari non imposti dalla legge, che discende a contrario dall’art. 32 della Costituzione, sul diritto a lasciarsi morire, sul divieto di accanimento terapeutico e sul diritto all’ambiente salubre.

 

Il diritto all’ambiente salubre verrebbe dunque in rilievo come diritto a vivere in un ambiente "degno" per una persona umana o, più semplicemente, come diritto a vivere una vita "degna dell’uomo". In questo senso, possono richiamarsi le disposizioni dell’ordinamento penitenziario che riguardano le modalità di realizzazione dei nuovi edifici penitenziari, che devono, ad esempio, assicurare la differenziazione tra locali di soggiorno e di pernottamento (artt. 5 e 6 O.P.), nonché, più generale, le prescrizioni rivolte genericamente a salvaguardare la salute del detenuto e a contenere le cause che potrebbero determinare il crearsi di un ambiente insalubre, quali quelle relative al vestiario e al corredo da fornire a ciascun detenuto (art. 7 O.P.), all’uso dei servizi igienici e alle forniture di oggetti necessari alla pulizia personale (art. 8 O.P.), alle caratteristiche dell’alimentazione e alla somministrazione del vitto (art. 9 O.P.), alla permanenza all’aria aperta per un determinato tempo giornaliero (art. 10 O.P.).

 

Il problema della volontarietà delle misure sanitarie si pone in modo specifico nel carcere: la mancanza di autodeterminazione nel ricorso alle prestazioni mediche, che distingue la posizione dei detenuti da quella dei cittadini liberi, trova la sua giustificazione nell'assetto comunitario del carcere, dove è più forte l'esigenza di tutela degli interessi collettivi.

In ossequio alla riserva di legge, prevista dal secondo comma dell'art. 32 Cost., l'art 11 O.P. e l'art. 23 Reg. prevedono una serie di controlli medici effettuabili indipendentemente dalla richiesta dell'interessato: la visita medica generale d'ingresso, l'assistenza periodica e il controllo periodico dei detenuti adibiti a mansioni lavorative. Si tratta di misure stabilite in funzione di garanzia per la salute individuale e collettiva. Per i nuovi giunti  è previsto un servizio psicologico, che insieme alla visita medica e al colloquio, è espletata all'atto dell'ingresso ma che, a differenza di questi, non è previsto dalla legge ma istituito tramite circolari amministrative. Tali accertamenti hanno natura meramente amministrativa. Per esempio il prelievo delle urine, finalizzato all'accertamento di stati patologici, rientra tra le attività amministrative demandate ai responsabili di ciascun Istituto (art. 11, quinto comma O.P.). Per gli altri tipi di accertamenti, quali lo screening infettivologico e la serie di esami dirette alla individuazione di patologie a tipo diffusivo, si rientra nei c.d. trattamenti sanitari non obbligatori che, indipendentemente dalla previsione della legge, pongono sempre il problema del consenso dell'avente diritto e dei suoi limiti. Vi è infatti la necessità del "consenso informato" cioè quello espresso dal paziente consapevole delle proprie condizioni di salute e dei rischi ai quali può andare incontro sottoponendosi ad una determinata cura. È stato evidenziato, comunque, come sia rimasto insoluto l'aspetto della volontarietà dei trattamenti forniti al detenuto in quanto non esiste la possibilità della scelta del luogo di cura e neanche della preliminare informazione, "restando sostanzialmente indefinito l'aspetto del consenso del malato per tutte o parte delle misure che si intende porre in atto a suo carico e mettendo in dubbio il diritto alla riservatezza dei relativi documenti sanitari" (Valentini, D., I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, Piccin, Padova, 1996, 287.)

Non esiste un elencazione, in positivo, delle attività mediche che richiedono il consenso informato: solo in materia di trasfusioni (legge 4.5.1990, n.107 e art.19 Decreto Ministeriale della Sanità 15.1.1991) è stabilito espressamente, costituendo questa una pratica non esente da rischi.

Principio cardine per il realizzarsi di una corretta pratica medica è dunque la capacità da parte del paziente di ricevere, comprendere e valutare le informazioni circa gli atti diagnostici e curativi che lo riguardano e di esprimere un valido consenso  (IL CONSENSO si definisce valido se “dato da una persona che dispone di tale diritto, è legittimata a consentire, ha la capacità ed è libera di agire”)

In positivo il consenso non è richiesto:

a. in caso di necessità, quando una persona si trova in pericolo di vita o rischia un danno gravissimo alla salute;

b.                       in caso di vaccinazioni obbligatorie;(anche se non coattive mentre possono essere coattivi gli interventi diagnostico-terapeutici necessitati dalla presenza di malattie infettive e diffusive (art.253 Testo Unico Leggi sanitarie, Regio Decreto n.1265 del 27.7.1934)

c.                        trattamenti sanitari obbligatori

 

 

La normativa che riguarda gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari ed obbligatori è quella di cui agli art. 13,19,32 della Costituzione, degli art. 33, 34, 35 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 “Istituzione del Servizio Sanitario nazionale”, dell’art. 5 del Codice civile.

 

Art. 33

(NORME PER GLI ACCERTAMENTI ED I TRATTAMENTI SANITARI VOLONTARI ED OBBLIGATORI)

Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l'articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono attuati dai presidi e servizi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. L'unità sanitaria locale opera per ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori, sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità.

Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, l'infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno.

Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio.

Sulle richieste di revoca o di modifica il sindaco decide entro dieci giorni. I provvedimenti di revoca o di modifica sono adottati con lo stesso procedimento del provvedimento revocato o modificato.

 

Art. 34

(ACCERTAMENTI E TRATTAMENTI SANITARI VOLONTARI E OBBLIGATORI PER MALATTIA MENTALE)

La legge regionale, nell'ambito della unità sanitaria locale e nel complesso dei servizi generali per la tutela della salute, disciplina l'istituzione di servizi a struttura dipartimentale che svolgono funzioni preventive, curative e riabilitative relative alla salute mentale.

Le misure di cui al secondo comma dell'articolo precedente possono essere disposte nei confronti di persone affette da malattia mentale.

Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi territoriali extraospedalieri di cui al primo comma.

Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui al terzo comma dell'articolo 33 da parte di un medico della unità sanitaria locale e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel presente comma.

Nei casi di cui al precedente comma il ricovero deve essere attuato presso gli ospedali generali, in specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura all'interno delle strutture dipartimentali per la salute mentale comprendenti anche i presidi e i servizi extraospedalieri, al fine di garantire la continuità terapeutica. I servizi ospedalieri di cui al presente comma sono dotati di posti letto nel numero fissato dal piano sanitario regionale.

 

 

 

 

Art. 35

(PROCEDIMENTO RELATIVO AGLI ACCERTAMENTI E TRATTAMENTI SANITARI OBBLIGATORI IN CONDIZIONI DI DEGENZA OSPEDALIERA PER MALATTIA MENTALE E TUTELA GIURISDIZIONALE)

Il provvedimento con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, da emanarsi entro 48 ore dalla convalida di cui all'articolo 34, quarto comma, corredato dalla proposta medica motivata di cui all'articolo 33, terzo comma, e dalla suddetta convalida deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero, tramite messo comunale, al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune.

Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco. In caso di mancata convalida il sindaco dispone la cessazione del trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.

Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è disposto dal sindaco di un comune diverso da quello di residenza dell'infermo, ne va data comunicazione al sindaco di questo ultimo comune, nonchè al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune di residenza. Se il provvedimento di cui al primo comma del presente articolo è adottato nei confronti di cittadini stranieri o di apolidi, ne va data comunicazione al Ministero dell'interno, e al consolato competente, tramite il prefetto.

Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento, il sanitario responsabile del servizio psichiatrico della unità sanitaria locale è tenuto a formulare, in tempo utile, una proposta motivata al sindaco che ha disposto il ricovero, il quale ne dà comunicazione al giudice tutelare, con le modalità e per gli adempimenti di cui al primo e secondo comma del presente articolo, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso. Il sanitario di cui al comma precedente è tenuto a comunicare al sindaco, sia in caso di dimissione del ricoverato che in continuità di degenza, la cessazione delle condizioni che richiedono l'obbligo del trattamento sanitario; comunica altresì la eventuale sopravvenuta impossibilità a proseguire il trattamento stesso. Il sindaco, entro 48 ore dal ricevimento della comunicazione del sanitario, ne dà notizia al giudice tutelare.

Qualora ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e per amministrare il patrimonio dell'infermo.

La omissione delle comunicazioni di cui al primo, quarto e quinto comma del presente articolo determina la cessazione di ogni effetto del provvedimento e configura, salvo che non sussistano gli estremi di un delitto più grave, il reato di omissione di atti di ufficio.

Chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre al tribunale competente per territorio ricorso contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare. Entro il termine di trenta giorni, decorrente dalla scadenza del termine di cui al secondo comma del presente articolo, il sindaco può proporre analogo ricorso avverso la mancata convalida del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio.

Nel processo davanti al tribunale le parti possono stare in giudizio senza ministero di difensore e farsi rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce al ricorso o in atto separato. Il ricorso può essere presentato al tribunale mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Il Presidente del Tribunale fissa l'udienza di comparizione delle parti con decreto in calce al ricorso che, a cura del cancelliere, è notificato alle parti nonchè al pubblico ministero.

Il presidente del Tribunale, acquisito il provvedimento che ha disposto il trattamento sanitario obbligatorio e sentito il pubblico ministero, può sospendere il trattamento medesimo anche prima che sia tenuta l'udienza di comparizione.

Sulla richiesta di sospensiva il Presidente del Tribunale provvede entro dieci giorni. Il Tribunale provvede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, dopo avere assunto le informazioni e raccolto le prove disposte di ufficio o richieste dalle parti.

I ricorsi ed i successivi procedimenti sono esenti da imposta di bollo. La decisione del processo non è soggetta a registrazione.

L’Art 32 della Costituzione così recita: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.  La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

 

La ricorrenza delle indicazioni per le quali è previsto il provvedimento del "trattamento sanitario obbligatorio" per malattia mentale, di cui agli art.34 e 35 della 833 è circostanza che può verificarsi anche in ambiente detentivo carcerario. Non ci sono dubbi riguardo l’applicazione della norma: bisogna ricorrere al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale competente per territorio  perfezionando il relativo procedimento amministrativo con 1) proposta di un medico, 2) convalida di un medico della struttura pubblica, 3) ordinanza del sindaco che deve anche provvedere alla comunicazione al giudice tutelare.

 

 Nel contesto del penitenziario  si amplificano tuttavia problematiche logistiche o di tempestività nell'adozione della misura terapeutica che finiscono per limitare l'efficacia di tale provvedimento.  Le problematiche aperte per quanto riguarda i detenuti affetti da malattia mentale, a parte i TSO, riguardano invece  il mantenimento o meno dell’ospedale psichiatrico giudiziario e coinvolgono una molteplicità di aspetti giuridici e sanitari, di concezioni della malattia mentale e della pericolosità sociale.

 

Meno chiara e con orientamenti giurisprudenziali a volte divergenti risulta invece l’applicazione della norma del trattamento sanitario obbligatorio di cui all’art 33 della 833 cioè per tutte quelle condizioni che non riguardano la malattia mentale.

 

Per comodità espositiva tralasciamo gli aspetti dell’infermità del detenuto arrivati a gravità tale da renderlo incompatibile con la condizione di detenzione.

 

(Ricordiamo che l’art. 147, 1° comma, n. 2, c.p., prevede il rinvio facoltativo della pena nei confronti di chi si trova in condizione di grave infermità fisica.

 

Il Tribunale di Sorveglianza, competente a disporre il suddetto rinvio per i condannati, deve accertare l’incompatibilità con il regime detentivo ordinario tenendo conto di una serie di fattori documentati nella relazione sanitaria del personale specialistico e nella perizia medico - legale, tra i quali non solo l’entità della patologia ma soprattutto la possibilità di giovarsi di cure e trattamenti diversi e più efficaci di quelli che sono apprestati nelle istituzioni mediche esistenti presso il carcere.

Le situazioni d’incompatibilità possono essere "relative" o "assolute". Nel primo caso può essere, ad esempio, disposto il ricovero presso un centro diagnostico terapeutico dell’amministrazione penitenziaria, nel secondo si proporrà l’alternativa tra il ricovero in un istituto di cura extra carcerario o la concessione degli arresti domiciliari. In sostanza, il differimento dell’esecuzione della pena potrà essere concesso solo in caso di grave infermità, rispetto alla quale si attesti l’impossibilità di praticare utilmente le cure nel corso dell’esecuzione, soprattutto in quei casi in cui l’accertata infermità sarebbe potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria.)

 

Entrando nello specifico parleremo prima di un caso di rifiuto di trasfusione e poi di un caso di rifiuto dell’alimentazione.

 

  Prendiamo ad esempio il caso di un detenuto in imminente pericolo di vita che rifiuta una trasfusione.

Un primo orientamento giurisprudenziale, che raccoglie il consenso della maggior parte degli studiosi ritiene che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, ritenendo la salute come un diritto fondamentale dell’individuo e, come tale, primario assoluto. Pertanto conclude che, essendo non prevista come obbligatoria la trasfusione essa può essere praticata e somministrata soltanto con il consenso valido del soggetto interessato.

Un secondo orientamento, che trova concordi un minor numero di studiosi, richiamandosi al primo comma dell’art. 2 della Costituzione, ha invece sottolineato che la tutela della salute costituisce anche un interesse della collettività. Da qui ne discende la possibilità di limitare la libertà religiosa e/o in senso lato la libertà di coscienza.

In linea di massima la dottrina propende per il primo orientamento.

 

Nel caso di un paziente in stato di incoscienza esiste invece un accordo unanime a non accettare il dissenso verso il provvedimenti sanitari, anche trasfusionali.

Quando il paziente è cosciente per il medico l’art. 50 del C.P. recita che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso della persona che può validamente disporne.

Qualora invece il paziente non sia in grado di manifestare una cosciente e consapevole volontà la decisione spetta unicamente al medico a favore del quale è sempre applicabile l’esimente art. 54 C.P. per aver agito in stato di necessità, anche se un infausto esito dovesse giungere dopo aver praticato l’emotrasfusione. (art. 54 c.p. Stato di necessità: non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi costretto dalla necessità di salvare se o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile sempre che il fatto sia proporzionale al pericolo).

Evitando così l’incriminazione prevista dall’art. 593 c.p.(omissione di soccorso) e l’art. 328 c.p. (atto dovuto d’ufficio)

 

Un altro caso concreto che si incontra non raramente in ambito penitenziario è la possibilità di mettere in atto l’alimentazione forzata nei confronti del detenuto in sciopero della fame.

 

Lo sciopero della fame viene definito, dalla dottrina medico – legale, come "il rifiuto volontario, totale, dell’assunzione di cibo (in genere con l’esclusione del rifiuto di acqua), senza giustificato motivo medico, che duri per più di tre giorni".

 

In mancanza di una specifica disciplina legislativa, dovrebbe escludersi la liceità dell’intervento medico realizzato con le modalità dell’alimentazione forzata, non essendovi dubbio che esso costituisca un "trattamento sanitario" ai sensi dell’art. 32, 2° comma della Costituzione., sia perché le tecniche da impiegare sono presumibilmente sanitarie, sia perché la pratica ha il fine di conservare in salute un individuo che attua un comportamento auto lesionistico com’è il digiuno prolungato.

 

Non sono tuttavia mancate pronunce di segno contrario che, nell’escludere l’applicabilità della misura della libertà provvisoria nei confronti del detenuto che si trovasse in condizione morbosa in conseguenza del protratto rifiuto del cibo, hanno ammesso la possibilità di praticare il trattamento dell’alimentazione forzata. In questo caso il fondamento normativo del trattamento è stato ricercato da un lato nelle norme che prevedono trattamenti sanitari obbligatori nei confronti delle persone affette da malattia mentale (art. 34, legge n. 833 del 1978), dall’altro nelle norme che consentono l’uso dei mezzi di coercizione fisica nei confronti del detenuto al fine, tra l’altro, di garantire la sua stessa incolumità (art. 41 O.P.).

Ma entrambi i tentativi di fondare la liceità e la doverosità dell’intervento sono apparsi, per la gran parte degli studiosi, insoddisfacenti:

 

L’applicazione della disciplina contenuta nell’art. 34 della legge n. 833 del 1978 presuppone che si dia per scontato che il rifiuto protratto di alimentarsi sconfini sempre, a partire da un certo momento, in disturbo mentale, rendendo perciò stesso lecita qualsiasi misura obbligatoria e coattiva nei suoi confronti. Peraltro la stessa legge n. 833 del 1978 prevede che i trattamenti sanitari obbligatori possano essere disposti solo "nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici" (art. 33, 2° comma), e sarebbe "difficile negare che una coazione diretta a vincere il rifiuto, cosciente e volontario, di alimentarsi interferisca in tale sfera".

 

Né va dimenticato che l’art. 32, 2° comma, Cost., va interpretato nel senso che il trattamento sanitario può essere imposto per legge solo quando sia in gioco, oltre alla salute dell’interessato, anche quella di terzi, per il resto dovendosi configurare un vero e proprio "diritto ad essere malato".

 

Né può valere il richiamo all’art. 41 O.P. che consente l’uso della forza nei confronti dei detenuti qualora sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza e tentativi d’evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti.

(L’art. 41 della legge n.354 del 26 luglio 1975 recita: ”Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire l’incolumità del soggetto. L’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario”.

 

Lo sciopero della fame non si traduce, in effetti, in un "atto di violenza", né il fine di garantire l’incolumità del detenuto può giustificare un’attività che non si ridurrebbe nella "immobilizzazione" del soggetto, autorizzata dall’art. 41 per fare fronte a situazioni di emergenza, ma realizzerebbe una specifica e attiva "manomissione" della persona; altro sarebbe contrastare con la forza la commissione di atti positivi di violenza altro impedire un comportamento puramente omissivo e passivo come il digiuno.

 

Appare non soddisfacente per come proposto da alcuni Autori l’eventuale introduzione di una disciplina legislativa che preveda espressamente la disposizione dell’alimentazione forzata nei confronti del detenuto che versi in "imminente pericolo di vita", non potendo trovare giustificazione nell’art. 32 Cost. una disciplina dell’alimentazione coattiva limitata ai soli scioperanti della fame detenuti.

In sostanza, non sembra ipotizzabile un trattamento "particolare" nei confronti dei detenuti che valga a disconoscere, solo per essi, il diritto a non essere curati.

Non è possibile riscontrare alcuna giustificazione costituzionalmente ammissibile per un trattamento "differenziato" nei confronti dei detenuti "in una materia che investe il godimento di diritti così strettamente legati all’eguale dignità di ogni persona", non potendo nemmeno ritenersi che la responsabilità dell’istituzione carceraria sulla vita dei detenuti autorizzi "a varcare i limiti imposti dal rispetto della persona, della sua autonomia e dei suoi diritti", specie in casi, come il digiuno, che rientrano nella sfera dei comportamenti strettamente personali non interferenti con i diritti altrui.

 

Altro è, infatti, ipotizzare un intervento medico in attuazione dell’obbligo di soccorso nei confronti di chi corre pericolo di vita e non è in grado di scegliere alcunché, altro è riconoscere un generico potere di intervento coattivo in caso di digiuno volontario.

Nella prima ipotesi, infatti, l’intervento prescinde dalle cause che hanno determinato la patologia e si giustifica esclusivamente in relazione alla condizione in cui il soggetto versa. In questo frangente sono valide le considerazioni che abbiamo invocato nei confronti del paziente incosciente che rifiuta la trasfusione

Nella seconda ipotesi, invece, il medico dovrebbe comportarsi secondo quanto prescritto dall’art. 50 del codice di deontologia medica del 1995, che così dispone: "quando un recluso rifiuta di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarlo sulle conseguenze che tale decisione comporta sulle sue condizioni di salute. Se il recluso è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive ne collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterlo".

 

Ben potrebbe affermarsi quindi che la vera garanzia del diritto del detenuto a non farsi curare risieda proprio nella mancanza di una previsione legislativa che consenta l’alimentazione forzata in caso di sciopero della fame. 

Si potrebbe infatti sostenere che il principio costituzionale dell’autodeterminazione imponga al legislatore di astenersi dal disciplinare la materia, proprio in quanto si arriverebbe a fare ciò che la Costituzione non ha inteso fare, e cioè a collocare su una diversa posizione di un’ipotetica scala gerarchica il valore della "vita" e quello della "dignità" della persona.

Ma, quella che a noi sembra la conseguenza di una scelta costituzionale è stata troppo spesso intesa alla stregua di una lacuna normativa da colmare ricorrendo ad altre previsioni esistenti nel sistema, finendo in molti casi, da un punto di vista applicativo, per negare lo stesso diritto a non farsi curare in capo al (solo) detenuto.

 

Da questa breve relazione si evidenzia come sono ancora molti gli aspetti controversi che il medico penitenziario quotidianamente incontra nell’esercizio della professione.

Un ruolo fondamentale nell’affrontare questo tipo di problemi deriva dall’esperienza dell’operatore sanitario che deve  mediare tra le disposizioni legislative ed il contesto strettamente attuale del singolo detenuto.

Quest’ultima considerazione secondo noi merita di avere una maggior peso nella discussione in atto intorno al trasferimento di competenze dell’intero sistema sanitario penitenziario nell’ambito del servizio sanitario nazionale.

 

 

 

 

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